Parlare di Patrizia Laquidara vuol dire entrare in contatto con la sua intimità, il suo mondo custodito e accudito. Lei, creatura letteraria per vocazione, troppo se stessa per essere oggetto di consumo comune, fortunata portatrice sanissima di libertà e istinto di passione, trova compiutezza nel plurale, come un prisma che riflette luci e orizzonti troppo necessari per essere costretti. Patrizia è una persona, una donna, di dolcissima complessità, e di primitiva comprensione. In lei le malinconie color pastello dell’animo hanno spesso un contraltare carnascialesco e liberatorio nei ritmi musicali. Un anno fa il suo bellissimo romanzo “Ti ho vista ieri” (ed. Neri Pozza) era la tappa naturale di un’evoluzione creativa sempre coerente, sempre verso se stessa e quindi verso la verità del dire, del cantare, del raccontare. In quelle pagine vi era il realismo magico siciliano e veneto, nel viaggio di una bambina che entra nel mondo adulto e moderno ma non lascia mai i tempi passati, le tradizioni, le piccole superstizioni e, ovviamente, la se stessa bambina. Da quelle pagine trae vita il nuovo progetto musicale di Patrizia. Dapprima arrivò “Assabenerica”. La Santa in processione, le sere d’estate, una chitarra latina, una preghiera carnale perché “sono meduse i tuoi dolori”. Nella lingua colloquiale e giovane ormai non si dice più ma il saluto (Che Dio ti benedica) è qualcosa di prezioso e il brano ne canta le lodi. È formula sia di benvenuto che di congedo ma soprattutto di rispetto. Il Siciliano è stato sempre molto rispettoso riguardo al saluto, per questo infatti si diceva: “Lu salutu lu lassau Diu” oppure “Lu salutu è di l’ancili“. “Assabenerica” era il saluto che rappresentava il massimo del rispetto portato verso la persona da salutare. Lo usavano i ragazzi per salutare “lu tata, la matri, lu tataranni, la mammaranni” (il padre, la madre, i nonni) e i parenti più grandi e più intimi; ma lo usavano anche i meno abbienti quando salutavano una persona più di riguardo, come pure il figlioccio rivolto al padrino.
E in questo viaggio nel tempo e nei tempi, nei sapori, nei modi, nei ricordi ancora vivi, adesso è il momento di “Ti ho vista ieri” brano che prende appunto il titolo dal libro. Ed è un’altra danza, un’altra forma di tarantella del ventunesimo secolo. Basso distorto e tastiere dominanti per un pezzo che mantiene una sorta di forma di ballo popolare. E le storie, perché di storie è fatta la canzone. Storie di donne e di ferite, di una forma mediterranea di kintsugi, l’arte giapponese che prevede di usare la polvere d’oro per riparare le ceramiche così che dalle crepe si veda l’oro, rendendo la fragilità un punto di forza e perfezione. Di questo canta Patrizia, delle ferite da cui “passa un raggio di sole”.
Quel che Patrizia Laquidara sta facendo con questo connubio tra letteratura e canzone, non è una novità. Già ai tempi del “Canto dell’Anguana” proponeva una forma particolarissima di teatro-canzone in cui la materia “classica” (laddove per classico si intende tradizione popolare) era intrecciata al cantautorato. Ora le tradizioni sono le sue, nel senso di vissuto suo, di inciso indelebilmente sulla pelle. Un altro passo soave e ponderato al contempo, lungo una via che da più di vent’anni (“Indirizzo Portoghese” è del 2003) la vede non soggetta a regole e maritata con la sostanza stessa del creato.