Patrizia Laquidara è quieta densità. Si muove costantemente, cambia pelle e posizione, si prende pause e tempi lunghi, sperimenta, cuce e scuce, è tante persone in una sola donna. Ma in questo turbinio, quel che che comunica è eleganza, naturalezza, calma. Una pace, forse, naturale conseguenza della curiosità che la muove e la porta a vivere la vita stessa come l’arte. Patrizia è una creatura fragile eppur decisa, bambina sempre ma con mille esperienze alle spalle, scossa ma dolce. E soprattutto, è un essere umano che apre, agli altri, alle idee, al domani, ad una diversa se stessa. Ed in questa apertura ho sempre trovato la chiave del suo lavoro. Nel contaminare, nel far percepire che ogni parola sia stata pensata a fondo e che allo stesso tempo sia una parola che ora va libera, cercatrice di altri sensi. Perché i sensi sono fondamentali per lei. E non solo in quanto significati ma proprio come sensazioni anche carnali, emotive. Parole e suoni sulla pelle. Patrizia Laquidara è in uno dei suoi momenti di apertura. Ha appena concluso con successo una serie di repliche dello spettacolo “Sirene”, che l’ha vista tra le protagoniste.
Ciao Patrizia, allora, come stai?
“E’ un momento bello perché il progetto di “Sirene” mi ha portato via tanto tempo e l’ultimo mese in particolare è stato intensissimo. Nello spettacolo non dovevo solo cantare ma anche recitare e poi, per la prima volta, ero responsabile della drammaturgia musicale. Sono traguardi nuovi per me. Per come sono fatta io vale sempre la pena provare qualcosa di nuovo perché lo provo per prima a me stessa. Quindi ora vivo un momento di rilassatezza, come dopo una fatica. Una fatica felice”.
E domani? Hai delle priorità o ti lasci trasportare dalla creatività del momento?
“Figurati, non sono per niente metodica o disciplinata e vorrei davvero esserlo di più. Cerco il giusto compromesso tra la vita quotidiana con lo scorrere dei pensieri legati all’improvvisazione, e un approccio lavorativo, come dire, serio. Però tutto deve essere inserito dentro ad un binario preciso altrimenti rischio di perdere tantissimo tempo. Quando sei creativo ti perdi. Da una parte lascio che sia così e mi prendo i miei spazi e i miei tempi che per me sono fondamentali e a cui non rinuncerei mai. Da un’altra parte so che devo trovare il compromesso tra il flusso delle idee e quello che DEVO davvero fare”.
Patrizia è una persona che vive le cose sposandone l’essenza. Stare con lei ti fa capire quanto vero sia il concetto per cui uno scrittore non smette di essere scrittore quando non scrive. Lei affronta il lato artistico della vita con spontaneo trasporto fisico. Ha un rapporto con la sua voce, col suo corpo, con i suoi pensieri, che la porta ad inserirsi sempre in un contesto di gusto, raffinatezza, un filo di malinconia e due sorrisi annodati.
Com’hai vissuto la pandemia?
“Il Covid non mi ha cambiato creativamente. Quand’è scoppiato il tutto io arrivavo da un periodo molto stancante, ero dentro ad un ritmo incessante di impegni ed il tutto mi aveva messo addosso una tensione per cui sentivo di dover essere sempre funzionale e urgente. Quella pausa, nella sua tragedia, almeno a me ha permesso di far decantare tutto. E’ stato come scrostarsi di dosso anni di stress. Ero immersa nella scrittura di un libro e avevo davvero tanti concerti in Italia. Arriva il lockdown e io, subito, ho fermato tutto, sono stata in lockdownd da me stessa. Non ho nemmeno aprofittato della pausa per finire il libro ma ho semplicemente staccato. Mi sembrava che la cosa più giusta per me fosse osservare quanto avveniva. Ho la fortuna di vivere in un luogo a stretto contatto con la natura e quindi mi sono concessa lunghe passeggiate, ho visto i colori della primavera arrivare, e capivo che a lungo termine quel momento avrebbe nutrito la mia creatività. E così è stato. Un po’ avevo anche paura, mi chiedevo: che fine farà il mio lavoro? Quello che faccio io lo amo totalmente, ma sempre di più lo sento anche come fosse una funzione, non so se mi spiego. Voglio dire: non è l’unica cosa della mia vita e sento di esprimermi come donna in molte altre cose ed il lockdown mi ha dato quel distacco dalla mia professione e al contempo anche dalla paura. Mi son detta: sono comunque io anche se andasse tutto a rotoli! Poi, quando hanno riaperto, sono ripartita subito e anche molto bene. Insomma, non mi lamento affatto”.
Quel che il covid ha fermato era il tour dell’ultimo album “C’è qui qualcosa che ti riguarda” (registrato anche in buona parte dal vicentino Federico Pelle che ne ha curato poi il mastering nel suo “Basement Studio”) prodotto da lei stessa e arrangiato superbamente da Alfonso Santimone. Un disco molto personale, finalista della Targa Tenco, rassegna in cui Patrizia è ormai di casa. D’altronde il suo stile è profondamente autoriale e ricercato che non ha molti simili nel contesto italiano.
Come definiresti la tua musica? E come definiresti in generale la musica cantautorale?
“Nei miei primi due album, a riascoltarli adesso, sento che cercavo, non so quanto consapevolmente, di essere in ogni caso un’artista pop. Un pop magari ricercato ma pur sempre strutturato nella forma canzone che conosciamo. L’ultimo disco invece si è inserito in un momento particolare. L’idea era proprio di non giocare al ribasso e osare, inserire l’orchestra, lavorare sui suoni. E’ il mio disco più maturo e mi vede autrice a tutto tondo visto che negli altri scrivevo più i testi che le musiche. Ci siamo presi il lusso di non fare troppi compromessi. Non è un disco facile e ti ci devi affezionare. Non ho mai cercato il riscontro a tutti i costi. Non rifiuto affatto il successo, anzi, ma non mi sono mai posta il problema. Ci sono altri artisti che magari non se lo possono permettere ma credo io non avrò mai il pensiero di fare un disco facile soprattutto per il rispetto che ho per il pubblico”.
Sei come l’anguana protagonista del tuo disco del 2011, sinuosa e sfuggente.
“Mi piace depistare e non solo in musica. Anche nel privato, a volte ci si aspetta una cosa da me e magari ne faccio un’altra. Mi guida sempre l’istinto ed il piacere e quindi sia in musica che nel teatro che nella scrittura vado dove mi porto io. Non ho uno sguardo con prospettiva, quello me lo da il manager. Fosse per me farei solo quello che mi piace. Devo relazionarmi con una personalità, la mia, che mi porta a fare tante cose diverse. E soprattutto mi rendo conto che la mia creatività a volte non si esprime con i mezzi soliti: io ho un periodo in cui posso svrivere canzoni ed un altro in cui quella cosa lì non mi viene e allora magari devo mettermi a scrivere dei racconti, poi poesie o teatro. La musica comunque è la mia strada maestra e soprattutto la voce. Sulla voce il punto focale non lo perdo mai. Non perdo mai l’intimità con la mia voce”.
Parlami del libro a cui stavi lavorando prima della pandemia. L’hai poi terminato?
“Si, è pronto ed è stato un parto difficile perché ci tenevo tanto e volevo covarlo a lungo per tenermelo vicino e rileggerlo e correggerlo. Il libro è nato come raccolta di racconti sulla mia infanzia, non perché possa interessare a qualcuno la mia infanzia, ma credo comunque sia quel tempo favoloso che riguarda tutti noi. Essendo nata al sud negli anni 70 ho avuto un contatto anche con un mondo antico e, nello sfondo, appare tutto questo, così come l’Italia di quel tempo vista fuori dal finestrino della 127 gialla dei miei andando su e giù da Vicenza a Messina. I racconti, nel libro, sono vivaci quando ambientati a sud e più color pastello in Veneto”.
Parte della tua personalità, o forse molto, è anche segnata da questo essere siculo/veneta, con una sorta di anima divisa in due. Com’è il tuo rapporto con Vicenza?
“Ho avuto un rapporto molto conflittuale con Vicenza all’inizio perché mi sentivo come deportata. Stare al sud da bambini a Catania con la mia madrina e personaggi forti sono cose che ti entrano sotto pelle come per osmosi. Arrivare a Vicenza è stato un cambio enorme ed io improvvisamente ero la bambina che balbettava e parlava italiano. Facevo di tutto per integrarmi ma di fatto ero straniera e mi chiamavano terrona. Diciamo che era dura, anche se il mio carattere mi porta ed essere leggera e a non vivere ste cose come un dramma e il mio orgoglio mi faceva reagire. Nel tempo però son diventata vicentina e amo questo territorio, amo le persone che ho incontrato. Il canto dell’anguana è stato un grande passo perché cantare in dialetto vicentino è stata una catarsi, ho sentito che appartenevo a questa terra perché l’avevo finalmente cantata. E poi il ramo materno, che è veneto, è molto forte e luminoso”.
Com’è diventare noti partendo da Vicenza?
“Beh, molti dicono che qui non ci siano stimoli e solo capannoni ma io non lo penso affatto e ho sempre invece trovato che le proposte artistiche qui vengano accettate anche meglio che altrove e c’è un pubblico che è capace di ascoltare e questa cosa non l’ho trovata sempre in altri posti. Il problema più che altro sono gli spazi, ma non pensiamo che a Roma ce ne siano tantissimi, in rapporto ovviamente, e nemmeno a Bologna. Dipende tutto dalle persone e quello che vedo a Vicenza non è che sia diverso dal resto”.
Artisti vicentini?
“Madame mi piace molto, ha una forte personalità portata dentro ad un genere con una firma ed un impronta diversa e solo sua. Poi è chiaro che ora tutto è velocissimo e non giudico i trend musicali moderni ma Madame in ogni caso a me piace molto. Ed ha a che fare con un disagio che lei sicuramente ha vissuto in questa provincia, la ascolto e sento che è vera”.
Ora Patrizia andrà un po’ in Sicilia e farà il punto della situazione. Mi dice che il disco ancora non ce l’ha in mente ma l’anno prossimo sicuramente sente che le crescerà tra le mani. Le mani di questa donna pronta a mille e più cadute che però non molla mai.