Charles Mingus è stato un gigante. In tutti i sensi. Uomo colmo di vita, di appetiti, di passioni, sempre sul punto di esplodere, di traboccare, di innescare incendi o sommergere d’acqua la fiamma. Una persona dura e fragile. Nella sua biografia, come nella sua musica, passa forse meglio che in chiunque altro l’essenza stessa di cosa vuol dire Jazz. In francese jaser significa gracchiare, fare rumore, perfino copulare nel dialetto della Louisiana francofona del XVIII secolo. L’espressione jazz (originariamente scritta jass) viene da lì, da quel senso di meticcio, estremo, insalubre, dai bassifondi dove le razze si confondono in baccanali estenuanti, dagli ultimi, da chi canta il blues perché vive il blues. Il jazz è la migrazione degli afroamericani dal Sud verso il Nord degli Stati Uniti, che lasciano le piantagioni per trovare lavoro nelle grandi città e portano con sé le loro usanze tra cui la musica e le work song, il blues e il gospel. Il jazz è disperazione e voglia di vivere euforica allo stesso tempo. Jazz è contaminazione, improvvisazione, cultura e talento. Quando Charles Mingus diede alle stampe “Changes One” nel dicembre del 1974, la storia del jazz pareva già bella che scritta. Frank Zappa diceva “jazz is not dead, it’s just smell funny”. Era l’epoca della fusion, del jazz/rock, dei virtuosismi della Mahavishnu Orchestra e dei Weather Report, di dischi epocali come “On The Corner” di Miles Davis. La stagione del jazz per così dire “classico” era passata da un decennio, da quegli anni folgoranti segnati dal post-bop e dal jazz modale prima e dal free poi, con capolavori definitivi come “Kind Of Blue”, “The Shape Of Jazz To Come”, “Brilliant Corners”, “Mingus Ah Um”, “Giant Steps”, fino a “A Love Supreme”, “Out To Lunch”, “Spiritual Unity” e quel definitivo monumento third stream chiamato “The Black Saint & The Sinner Lady” e poi il primo jazz elettrico di Miles con “In A Silent Way” e “Bitches Brew”, tutto in dieci anni. Vette inarrivabili. Bene, in “Changes One” di Mingus c’era un brano di 17 minuti chiamato “Sue’s Changes” che non si sa quanto consapevolmente racchiudeva in meno di 20 minuti l’intera storia del jazz, sia tecnicamente che esteticamente. Chiamata così per la sua quarta e ultima moglie (si sposarono nel 1975) questa lunga suite ha cinque temi attorno ai quali gli strumentisti improvvisano.
La tipica canzone jazz ha un groove, che sia swing, bop, latino, ecc. che a volte cambia per il bridge, inoltre il tempo è praticamente lo stesso per tutta la durata del brano, soprattutto per gli assoli. Infatti, “affrettare” o “trascinare” sono peccati capitali, e il tempo della canzone alla fine non deve essere troppo diverso da quello dell’inizio. “Sue’s Changes”, invece, ha una bellissima melodia in evoluzione di forma lunga, di cui i cambi di tempo sono parte intrinseca. Inizia con un ritmo medio-lento e arretra fino a muoversi a malapena, poi riprende, fino a un tempo medio rimbalzante, e arretra fino a una pausa completa. Poi entra Mingus che stabilisce un nuovo tempo, che poi passa a un tempo più veloce, quindi c’è una melodia fresca su questo tempo più veloce che va in un riff di basso discendente. Tutti fanno assoli su questo riff, che diventa sempre più folle e si evolve in un vero e proprio putiferio, e poi boom! si torna all’inizio della canzone per il primo assolo (il meraviglioso Don Pullen). I cambi di tempo fanno parte della forma per OGNI solista, passando da medio a lento a non accompagnato a rimbalzante a swing fino al maniacale finale. Ma spiegata così rende zero. Quindi eccola qui.
Ecco, se qualcuno dovesse chiedervi cos’è il jazz, potreste fargli ascoltare “Sue’s Changes” e probabilmente capirebbe. Sia chiaro, non è il miglior brano jazz di sempre, e nemmeno il miglior brano di Mingus. E nemmeno Mingus è il miglior compositore jazz di sempre, perché le classifiche sono strane e fuorvianti e perché di geni veri e assoluti la storia del jazz ne ha forniti molti. Ma “Sue’s Changes” dentro ha tutto: la ballad blues, il tema d’amore, lo struggimento, lo swing, il free, la tecnica, il virtuosismo, la composizione “classica” da suite. Semplicemente stupefacente, con una miscela di tutto ciò che ha contribuito in più di un secolo a definire che cosa sia, appunto, il jazz.
Da oggi in città c’è il festival jazz, e la settimana del festival jazz è qualcosa che ormai è parte di Vicenza come il baccalà e la fiera dell’oro. Sono giorni non solo di concerti ma soprattutto di grande mondanità e ricchezza di programmi. Locali, bar, piazze, che si riempiono di musica e di gente che tira tardi e ascolta questa musica che, come accade sempre con la musica (pensateci un attimo), condiziona e delinea anche il modo in cui la si ascolta, l’approccio “estetico”. Ad un concerto jazz non ci vai come ad un concerto rock e nemmeno come ad un concerto di classica. Sebbene rimanga qualcosa dell’uno e dell’altro. Perché il jazz è altro. Per Thelonious Monk è “libertà, così, semplicemente”. Per John Coltrane è “l’espressione degli ideali più alti”. Per Francis Scott Fitzgerald è “una sorta di stato di eccitazione nervosa”. Per Duke Ellington “il jazz è sempre stato simile al tipo d’uomo con cui non vorreste far uscire vostra figlia”. Nella celebre frase di Alessandro Baricco il jazz c’è quando non sai che musica sia quella che ascolti. Mentre per Francesco De Gregori Perfino l’amore è più bello a livello di jazz | e la pioggia è più tiepida sotto l’ombrello del jazz.
Buona settimana di note blu a tutti. Qui il programma: https://www.vicenzajazz.org/