Dall’Africa al globale: Il Futuro è nel laboratorio Biennale 

In un itinerario tra Arsenale, Giardini e Forte Marghera, l’impressione immediata è che la 18° Biennale di Architettura, dal titolo “The Laboratory of the Future”, sia riuscita dove Expo2015 ha fallito. L’ampio percorso tra le nazioni partecipanti e i progetti selezionati nella mappa curatoriale, introducono all’osservazione di fenomeni già in atto, ma offrono inoltre riflessioni sulle conseguenze dell’utilizzo indiscriminato della risorsa Terra, con uno sguardo utopico e strumenti critici che anticipano soluzioni affascinanti. Non sarebbe corretto immaginare una “mostra di mostruosità” umane, scandita da cataclismi e apocalissi ecologiste. Persino neologismi come “chaord”, unione di “chaos” e “order” non devono trarre in inganno nella descrizione di un mondo senza speranza, abitato da umani privi di una coscienza rivolta alla riparazione dei danni della globalizzazione, quasi sempre insidiosi e capillari. In questa Biennale fioriscono invece le speranze, le proposte, persino audaci, di quanto già in campo, dove la ricerca tecnologica, è e si fa strumento per nuove soluzioni, dove le arti e l’indagine scientifica riprendono il loro ruolo di elaborazione e riscrittura del presente. 

Non sono bastati, è vero, decenni di appelli degli scienziati e degli attivisti sull’inconsistenza di una visione limitata allo stato-nazione sui temi dell’ecologia. La ricerca di una sostenibilità è anch’essa questione globale, in un pianeta visibilmente sconvolto dall’avvento dell’Antropocene, nel tentativo disperato di mitigare gli effetti inquietanti del cambiamento climatico. La nazione non può esistere, in presenza di un ecosistema connesso di fenomeni, che dalla causa conducono all’effetto, che dallo sfruttamento portano alla patologia. In questi non può essere escluso il fattore antropologico, culturale, specifico, che fa della pluralità di soluzioni (e di esigenze), una base per l’invenzione di nuovi approcci alla sostenibilità. 

Partendo dall’organizzazione stessa della stessa Biennale, la fondazione ha promosso un modello più sostenibile per la progettazione, l’allestimento e lo svolgimento di tutte le sue attività ottenendo, nel 2022, la certificazione di neutralità carbonica per tutte le proprie manifestazioni. Lo ha fatto un’istituzione, ma molto resta da fare nella Venezia al di fuori, paradigma del “progresso scorsoio” di Zanzotto, con le bottigliette di plastica pronte al tuffo sui canali o l’usa e getta ormai divenuto una vergogna del nostro considerarci dei “progrediti”.

Il merito di aver composto un percorso stimolante va assegnato a Lesley Lokko, l’ambiziosa curatrice di questa edizione, solenne figura di intellettuale, “contaminata” dal doppio passaporto scozzese e ghanese, che ha offerto alla Biennale un presidio di conoscenza qualificato, nel cuore di quel “nord”, come spesso viene definito nelle varie proposte, per la comprensione dei danni culturali e materiali che sono stati cronicizzati a partire dall’epoca del colonialismo. Lesley Lokko, scrittrice oltre che architetta, incarna quella visione “diasporica” di tante donne e uomini di origine africana da lei chiamati a raccolta, e che inevitabilmente avranno un protagonismo sempre maggiore nelle politiche culturali del presente.  

“La principale ragione della scelta stava nel dare la parola a una voce che veniva dall’esterno del mondo nord-occidentale, e soprattutto a una persona che si occupasse di architettura più in sintonia con i tempi”, ha dichiarato il presidente di Biennale Roberto Cicutto. 

Iniziando la visita dall’Arsenale, le installazioni si uniscono alle nuove visioni artistiche e alle indagini sui territori provenienti dall’Africa, documenti importanti per la comprensione dell’effetto del Colonialismo e del successivo abbandono dei modelli produttivi europei, senza che il colonizzatore prevedesse un responsabile traghettamento verso le nuove società, che da quell’incontro si sarebbero inevitabilmente generate. Un esempio ne è il documentario sulle conseguenze di tale fenomeno nel Congo Belga, certamente tra gli esempi più insostenibili e distruttivi della storia del colonialismo europeo, o gli effetti delle estrazioni petrolifere di aree del pianeta, i cui effetti sono riscontrabili da satellite. Lo stesso Belgio, nel suo padiglione ai Giardini, curato da Bento e Vinciane Despret, sperimenta materiali naturali di origine organica, quali terra cruda e micelio (la parte vegetativa dei funghi). Del cibo parlano Spagna e Latvia, un processo che muove anidride carbonica e masse di energie per garantire “il tutto e sempre” nelle tavole di chi può permetterselo. 

La mostra è complessivamente divisa in sei parti, con 89 partecipanti provenienti prevalentemente dall’Africa o dalla diaspora africana, composto per metà di donne, l’altra metà di uomini. L’età media è di 43 anni, con invitati nella generazione dei ventenni. Gli studi professionali partecipanti, sono per la metà composti da singoli individui fino a cinque persone. I “progetti speciali” della curatrice rappresentano la metà di quelli presentati, dislocati tra il Padiglione Centrale ai Giardini, l’Arsenale e il suggestivo Forte Marghera.

L’analisi del contesto, le ampie mappature e la volontà di operare verso la decolonizzazione e la de carbonizzazione, fanno da strumento di base per la creazione di vere e proprie visioni per il futuro, di possibili soluzioni e nel cercare un ruolo di autodeterminazione di paesi un tempo subordinati a culture straniere. Tutti i paragrafi di questo ampio progetto di laboratorio umano, serviranno prima di tutto al “nord” industriale e colonizzatore, ridotto spesso ad una stanca riproposizione di schemi di insostenibilità e pratiche che rischiano di non muoversi dall’utilitarismo.

Questa Biennale inizia dal ricordarci chi e cosa può essere un architetto. Una figura centrale, qualificata, libera, ambiziosa e competente, per offrire alle società umane nuove direzioni. Un taumaturgo? Certo, perché no. Un inventore di narrazioni? Altrettanto possibile. E quando a farlo sono giovani africani e diasporici, che offrono immagini  di “progresso nella tradizione”, torniamo alla pratica delle utopie, ma in una chiave di sostenibilità, di rapporto empatico con la terra e le società umane, seppur nel loro continuo adattamento. “le condizioni dense e complesse dell’Africa e di un mondo in rapida ibridazione richiedano una comprensione diversa e più ampia del termine “architetto”, precisa Lokko, nell’osservare i tanti portatori di utopia, che risultano difficili da definire in termini professionali tradizionali. 

Si evidenzia per chiarezza espositiva e interesse culturale il lavoro curato da Christopher Turner e Nana Biamah-Ofosu e Bushra Mohamed per un’istituzione forte di enciclopedismo, come il Victoria & Albert Museum di Londra, per la settima volta in collaborazione con la Biennale. Il progetto per le Sale d’Armi dal titolo “Modernismo tropicale: architettura e potere in Africa occidentale”, presenta la vicenda degli architetti, marito e moglie, Maxwell Fry e Jane Drew, inventori del modernismo tropicale, adattamento di un’estetica modernista alle condizioni difficili, calde e umide del continente africano. A questa invenzione di un nuovo stile, declinato però a nuove specificità, è correlata la figura di Kwame Nkrumah, divenuto il vero Primo Ministro e Presidente del Ghana nel 1957, dal quale in seguito inizierà il fenomeno di emancipazione e indipendenza di molti stati africani. Nel 1963, il Dipartimento di Studi Tropicali del Regno Unito, fu invitato a formare un avamposto presso la Kwame Nkrumah University of Science and Technology (KNUST) di Kumasi, di fatto creando una sorta di Bauhaus declinata all’Africa. La nascita di scuole di Architettura non è un fatto secondario, se si considera che la presenza ancora scarsa di istituti universitari accreditati nel continente africano, decreta uno svantaggio in partenza nel percorso di formazione dei suoi cittadini. 

La necessità di pianificare luoghi di aggregazione, vive ad esempio nello spazio Messico, curato da APRDELESP e Mariana Botey, i quali individuano nel “Campo da Basket contadino” una piazza per la socialità i cui effetti possono migliorare una comunità locale. Il consumo delle risorse, in particolare l’acqua potabile, è tra i temi centrali della riprogettazione delle società umane. Tra le proposte, messe in pratica in un paese come la Finlandia, c’è l’utilizzo del “huussi”, un servizio igienico che consente di recuperare in modo utile lo scarto biologico in un’ottica di compostaggio domestico. Con disinvolta ironia, all’esterno del padiglione finlandese, si scorgono le tracce archeologiche di un arcaico water in ceramica, retaggio di un’epoca sprecona. 

L’utopia parla anche attraverso gli occhi della Sirenetta di Copenhagen, che osserva da distante il nuovo skyline della capitale danese, un bucolico reinventato dai volumi e dalle ciminiere delle centrali di termovalorizzazione e teleriscaldamento.  Colpisce per la lucidità di richiamare antichi dilemmi di architettura, l’ottimo progetto della Turchia (all’Arsenale) “Ghost Stories”e la Teoria del “Sacchetto dell’Architettura”, che interroga i progettisti sulla bontà di una maggiore elaborazione degli edifici abbandonati, talvolta ecomostri, in altri casi nuovi simboli di una comunità che li ha introdotti nel proprio immaginario. Curato da Sevince Bayrak, Oral Göktaş, questo manifesto della rielaborazione architettonica invita a riflettere su molte questioni antiche, che oggi sembrano lasciate al puro capriccio del mercato. Tra questi, l’entropia che può possedere un edificio abbandonato, il presentismo del progetto architettonico e una riflessione offerta all’evoluzione dell’edificio in rapporto alla comunità. 

Se è interessante percorrere i numeri e le novità, le partecipazioni nazionali sono 64, con proprie mostre nei Padiglioni ai Giardini (27), all’Arsenale (22) e nel centro storico di Venezia (14). Il Niger partecipa per la prima volta alla Biennale Architettura; Panama si presenta per la prima volta da solo. Torna la partecipazione della Santa Sede, con un proprio Padiglione sull’Isola di San Giorgio Maggiore.

Questa Biennale dovrebbe invogliare alla visita quanti, amministratori pubblici e professionisti (oltre a chi ha piacere di lasciarsi stimolare da una visione aperta sul mondo), vorranno rendersi parte del cambiamento di paradigma per garantire un futuro accettabile. Nella pioggia di stimoli e di citazioni che vengono incontro al visitatore, colpisce la frase di James Baldwin “Ognuno di noi, ogni nazione, ogni individuo… ha un ruolo in questa storia e dobbiamo affrontarlo”.

La 18. Mostra Internazionale di Architettura dal titolo The Laboratory of the Future, a cura di Lesley Lokko, è visitabile fino a domenica 26 novembre 2023, ai Giardini, all’Arsenale e a Forte Marghera. Le attività formative, didattiche e gli eventi speciali sono disponibili su www.labiennale.org

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