“La tempesta” di Camilla Ghiotto e il viaggio emotivo per imparare ad essere figli

Camilla è figlia di Renzo, nome di battaglia “Tempesta” quando era a comando di una brigata partigiana. Renzo e Camilla non sono un padre e una figlia qualunque. Novantadue anni lui, diciassette lei, una vita intera li divide, o anche più d’una. Di quest’uomo che aveva già i capelli grigi quando è nata, che non ha mai visto giovane e forte come i papà delle sue amiche, Camilla si è sempre un po’ vergognata. E così, quando Renzo si ammala gravemente e viene ricoverato in una clinica dalla quale è presto chiaro che non tornerà più a casa, Camilla ha l’inconfessabile sensazione di potersi finalmente tuffare verso il futuro, senza voltarsi indietro. Mala malattia del padre la mette davanti alla consapevolezza che non si può costruire niente senza aver prima fatto i conti con le proprie radici, che non puoi perdere qualcuno senza aver provato a conoscerlo, e che forse le rimane ancora un po’ di tempo per essere davvero sua figlia. Così inizierà a cercare nel passato per scoprire il ragazzo che Renzo è stato tanti anni prima, quando la guerra infiammava l’Italia, i giovani salivano in montagna, sparavano, soffrivano la fame e il ghiaccio, cercando ogni giorno e ogni notte di dare un senso alle loro azioni. 

È questa, in brevissima sintesi, la storia di “Tempesta”, il primo libro di Camilla Ghiotto, vicentina che vive a Roma. L’abbiamo incontrata e abbiamo scambiato qualche riflessione.

Parlaci un po’ intanto del rapporto con Vicenza. Cosa significa crescere qui e poi scrivere altrove e se ti senti scrittrice vicentina anche se non vivi più qui.

Vicenza è l’ambientazione della prima parte del libro. Ora vivo a Roma e ho vissuto a Milano, ma la dimensione della città di provincia rimane molto affascinante e unica. Bianciardi diceva che nella provincia nasce la cultura perché i giovani hanno tempo per parlare, per discutere e io credo di essere stata fortunata proprio a vivere gli anni della crescita qui. La città sa anche inquietarti a suo modo, parlo soprattutto di quand’è vuota. Ricordo che alle 20 io tornavo da danza e non trovavo praticamente nessuno in giro in centro. Ho scelto comunque dei luoghi nel libro che sono i più significativi per me. Ad esempio ci sono delle scene ambientate a Monte Berico da cui si vede tutta la città e anche l’altopiano di Asiago che è un luogo particolarmente importante in questa storia. Vicenza nel libro è descritta con grande affetto, questo è sicuro.

Nel tuo libro c’è un incontro tra generazioni. Possiamo parlare anche di “passato e presente” o di una cosa che non è stata e poteva essere, di promesse per il futuro. Voltaire diceva che i padri hanno sempre torto. Tu sei pessimista o ottimista? Il dialogo esiste? Può servire?

Io penso assolutamente esista e possa servire nell’ottica di un dialogo che si basa su un tipo di memoria attiva, ovvero una memoria che trasmetta idee e valori da una generazione all’altra ma che nasca dalla fiducia verso la generazione successiva. Una fiducia che faccia sentire in grado i figli di costruirsi i propri valori, o di scegliere quali mantenere del passato, quali proteggere e quali scartare. La memoria deve essere sempre rivolta al futuro.

Ad un vicentino giovane come te cosa diresti, che per farcela si può rimanere anche qui o bisogna uscire verso i grandi centri?

Secondo me il mito delle grandi città rimane, io ricordo che al liceo tutti volevamo andare nei posti più lontano possibili, ma ora come ora con i mezzi che abbiamo a disposizione non è più necessario fino in fondo. Per scrivere, ad esempio, basta farlo anche dalla tua casa nel posto più sperduto e la tua voce sarà ascoltata anche se non la urli in una metropoli.

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