Povolaro è frazione di Dueville, conta più o meno 3500 residenti, è un paese di quelli con la chiesa e la piazza e due bar. Ci passa una strada molto trafficata, ci sono aziende e capannoni ma rimane un paese piccolo, con tutto quello che comporta. Beppe Bertoncello lo sa bene e per lui è importante essere chiamato Beppe al bar e non “buongiorno architetto”. Il suo studio è a due passi dal CUBO, la galleria d’arte che ha deciso di aprire quest’estate e di cui abbiamo già parlato qui. Con l’aiuto creativo di Nicola Bertoldo di “And Art Gallery”, Beppe ha voluto aprire proprio a Povolaro, a casa sua, uno spazio che potesse anche osare, che si distinguesse per proposte ed estetiche. Portare cultura anche alta dove solitamente non la si trova, è un lavoro essenziale e degno soltanto di plauso. Lontano dall’annoiata città che non si decide ad uscire dal centro storico, anzi, da Piazza dei Signori, quando si parla di organizzare qualcosa, ecco che la provincia vera diventa non solo luogo di accoglienza ma anche di condivisione e crescita. Con stupore, qualche dubbio e magari un po’ di diffidenza, ma il bello di proporre arte in posti come questo è che il ritorno è spontaneo e generoso.
Immaginate quindi come devono aver reagito gli indigeni quando si son trovati un uomo vestito di bianco che lavora, mangia e dorme in vetrina. Era il 13 novembre. La galleria era vuota, pareti spoglie e in quel giorno Andrea Barbiero vi si insediò. L’idea era di passarci 3 settimane per un totale di 504 ore (il titolo della performance/esibizione) e di creare sul posto un’opera al giorno. Un happening, un lavoro in corso mostrato nella sua nuda realtà o più banalmente un’occasione per vivere il processo creativo di Barbiero senza filtri. Già perché per lui non è una novità isolarsi o costringersi ad una forte auto disciplina per trovare ispirazione e lavorare.
Come va la libertà?
Sono stanco fisicamente e sento i 21 giorni addosso. Li sento più ora che prima, come fossi ancora in auto-analisi riguardo a tutto quello che ho fatto. Negli ultimi giorni mi chiedevano come fosse l’esperienza ed io non sapevo rispondere perché ero ancora dentro al progetto. Dopo essere uscito ho percepito subito il cambio ed era netta la consapevolezza che questo è stato davvero un percorso vissuto, nato e morto là dentro. Ed ora mi trovo con già del nuovo lavoro grazie all’eco della cosa.
Raccontaci com’è stato il rapporto con l’esterno. Chi ti vedeva da fuori, chi entrava in galleria…
C’è stato un interesse superiore a quanto immaginassi da parte dei cittadini. Come primissima cosa è scattato un contatto con i bambini di scuola che arrivavano con il bus al mattino e cercavano un interazione con me. Io scherzavo, facevo passi di danza e loro ripetevano le mie mosse. Un dialogo come volessero partecipare e questo ogni mattina. L’unica volta che mi sono svegliato alle 7 e mezza e non alle mie solite 6, e non mi hanno visto, erano quasi preoccupati e l’autista del bus è poi venuto a vedere se stessi bene. L’abitudine era entrata nel paese. Poi c’era la gente adulta che entrava per cercare di capire cosa fosse stesse succedendo, anche magari non essendo interessata ai miei pezzi e alla mia arte. Gli interessava la cosa in se. Qualcuno mi ha scambiato per un imbianchino. Poi c’è da dire che in paese, a mezzanotte, si spengono tutte le luci e quindi quel posto diventava l’unico punto luce di Povolaro e molte macchine che passavano si fermavano e venivano a curiosare.
Ciò che Andrea ha ricercato con le sue 21 opere in 21 giorni, è l’origine del conflitto, l’origine dell’amore, opere che dovevano riflettere dubbi esistenziali che si poneva ogni giorno. La galleria è quindi diventata luogo di perenne laboratorio di pensiero, un’incubatrice di idee e di visioni. CUBO è un contenitore che è adatto a cose non standardizzate.
Com’era la tua routine giornaliera?
I primi giorni accusavo tensione fisica e psicologica. Sentivo lo stress di iniziare qualcosa da zero e senza aver preparato nulla. Dopo ho avuto alti e bassi ed ho iniziato a capire certe mie reazioni. Al mattino solitamente ero entusiasta mentre la sera l’opera mi respingeva e dovevo prendermi tempo per capirla di nuovo. Nei primi giorni mi scordavo di mangiare, soprattutto a mezzogiorno. Mi svegliavo molto presto e volevo per forza iniziare e finire un opera prima di mezzanotte perché fosse rispettato il progetto di produrne una al giorno. Poi ho capito che avrei dovuto prendere un ritmo, e allora mangiavo e dormivo più normalmente e capivo che dentro a quelle 12 o 13 ore di lavoro potevo fare un’opera al giorno. Poi un po’ di gente iniziò a portarmi da mangiare. Un signore un giorno arrivò con una pizza bianca visto che tutto era bianco. L’ultimo giorno ho voluto fare un’opera site specific facendo un elogio allo spazio ed ho realizzato il campanule di Londra, il big ben, che suonava per l’ultimo giorno. Un gioco per dimostrare che prendo molto sul serio quello che faccio ma non me stesso. Alla fine ero stravolto comunque.
Le opere sono state realizzate tutte al cubo, una al giorno, ma anche il processo di studio è nato lì oppure ti sei portato dentro idee che ti erano venute in mente prima?
Quando decisi di fare questa cosa mi misi in testa che dovevo entrare con la mente sgombra e non portarmi dentro idee nate fuori. Però all’inizio giocoforza ero condizionato da pensieri precedenti. Poi sono riuscito ad annullare tutto ed ho cercato anche fisicamente il concetto di “origine” e per me sono stati 21 giorni di brainstorming tra me e me stesso sul tema dell’origine. Ogni giorno si sommavano idee e pian piano avevo una lista di idee sulla domanda “che cos’è l’origine”. Lo sviluppo di ogni opera mi portava ad andare più in là con quella dopo, non volevo mai ricadere su cose già fatte o già pensate. Si sono creati degli step automatici che mi portavano ad affrontare 4 passaggi nelle 21 opere: presentazione dell’origine, rappresentazione dell’origine, domande sull’origine e alla fine la contemplazione dell’origine.
Parlaci dei materiali che usi? Fanno parte del concetto che sostiene le opere?
Uso bamboo, ferro zincato e filo d’ottone. In questo caso ho iniziato ad intervenire con la pittura ma solo ad opera finita. In due occasioni ho deciso di rompere apposta le opere per dialogare di più con i corpo finale. Il senso di questi materiali è una sorta di DNA concettuale. Il bamboo ha una parte di resilienza, cresce solo in grippo, ed è una caratteristica molto umana. Inoltre la forma dell’impalcatura viene da ricerche che portano al lavoro di mio padre che era imprenditore edile, e io a casa giocavo con le impalcature, e quindi il mio inconscio ne è rimasto affascinato. Parliamo della struttura che tiene su un edificio, e serve per restauro e per contenere un edifico che altrimenti cadrebbe. Sono edifici in cui viviamo. Ecco il mio linguaggio complesso.
E adesso?
Quello che sto facendo è creare opere di land art simili a queste in galleria ma con cui si possa anche interagire. E metterle nella natura. Noi viviamo nel nostro copro e voglio che si possa abitare in qualche modo le mie opere.
Andrea Barbiero
Nato nel 1984 in Provincia di Vicenza, fglio d’arte non convenzionale.
L’interesse artistico inizia nel 2010 con il trasferimento a Barcellona che si manifesta attraverso il pop-surrealismo, ed inizia ed esporre per alcune gallerie e spazi pubblici della città. Nelle estati dal 2014 al 2017 entra a far parte dell’associazione residenza artistica St.Henri Castelnaudary, Toulouse. Tra il 2017 e il 2018 si trasferisce nuovamente a Vicenza, esponendo per il festival biblico, successivamente inizia a sviluppare un’interesse per la scultura che lo porta ad esporre nel 2019 con una personale nella Galleria & art gallery e conseguenti collaborazioni. Nel 2020 Barbiero si dirige verso la Landart che lo porterà a realizzare dei site-specifc per le istituzioni, come il comune di Bassano del Grappa (Vi), La biennale del Baldo Festival Provincia di (Vr) 2021, in collaborazione con Cariverona. La sua matrice artistica si basa sulla dualità, che usa per interpretare le direzioni umane, trova ispirazione nelle forme della natura e il suo funzionamento, adoperando il bamboo e l’impalcatura come base architettonica che costituiscono il dna del suo linguaggio per la costruzione delle opere.