Proseguiamo con le interviste ai protagonisti della rassegna “Abitare la città. Riflessioni e prospettive sulla rigenerazione urbana”. Rassegna a cura di Porto Burci e Sintesi APS con la collaborazione di Giulia Storato, Alessandra Lanaro, Barbara Pellizzari, Blendi Vishkurti, Anna Grazia Capparotto, Vi-Cult e Legambiente Vicenza APS.
Giulio Saturni è urbanista e presidente associazione COCAI aps. Si occupa di pianificazione territoriale comunale a livello regionale.
Francesco Campagnari è ricercatore e consulente e opera tra Verona e Parigi.
Come è cambiata la città negli ultimi decenni e con essa il concetto di periferia?
G.S. Possiamo dire che la città, più che essere promotore di sviluppo, è diventata uno spettatore e questo ha comportato nel tempo un regresso nella qualità dell’abitare. Se sei promotore metti al centro l’interesse del bene comune, ma quando diventi spettatore metti al centro l’interesse del singolo. Nelle trasformazioni urbane, quello che oggi è al centro, è l’interesse economico che supporta poi l’intervento legato al soggetto attuatore. Così si perde lo sviluppo collettivo della città. Le cause di questo sono molte. La prima è l’idea che il privato faccia sempre meglio del pubblico e quindi si trasferisce al privato quel che prima faceva il pubblico. Parlo di opere compensative che però spesso sono inadeguate. C’è il tema di ridare ai comuni una capacità di investimento nell’intervenire nella città a partire dagli spazi pubblici. L’investimento pubblico deve tornare ad essere protagonista nelle trasformazioni. Serve una rete con competenze diversificate gestite dalle amministrazioni. Il terzo settore poi è il soggetto che, attraverso interventi che nascono dal basso, può essere determinante nelle riappropriazioni di spazi oggi abbandonati o in degrado. Parlo di comitati di quartiere, associazioni, realtà che rimettano alla ribalta temi che altrimenti non verrebbero inseriti in agenda. L’esperienza di COCAI nasce proprio perché le città hanno un deficit di dialogo tra le varie realtà che poi possono portare a definire un’agenda. Come capire una città quindi? Servono moltissimi punti di vista, non solo dell’ingegnere ma di chi produce, di chi vive e di chi è ai margini, nelle periferie in cui i bisogni non vengono quasi mai intercettati. Servono chiavi di lettura diverse.
F.C. Ci sono due dinamiche importanti che si sono evolute nelle città del nord ovest, che poi è il mondo dove focalizzo le mie ricerche. Nelle città col nostro sistema economico, gli ultimi 50 anni sono stati anni di abbandono di enormi spazi urbani con l’effetto che abbiamo un’abbondanza di spazi privi di destinazione d’uso per carenza di strumenti di pianificazione e per un sistema economico che non sa come utilizzarli. In questo senso siamo alle prese con un doppio fallimento. Quello che oggi è interessante sono le modalità di trasformazione di questi spazi. La seconda dinamica è il cambio dei sistemi di comunicazione e di scambio tra città e città. Strumenti digitali e trasporto di massa, treni ed aerei a basso costo che permettono di visitare ed imparare. L’unione europea facilita questo scambio. Abbiamo problemi simili in contesti diversi. Il tema principale della città contemporanea è quello degli spazi in cui si possono sperimentare. Come dare spazio ai processi di attivismo e civismo? La periferia non è un concetto con cui mi trovo molto a mio agio perché purtroppo ha sempre una dimensione di giudizio e di stigma. Ci sono comunque due dimensioni: una geografica e una di distribuzione di capitali (sociali, economici, culturali). A volte coincidono e a volte no. Serve forse una multidimensionalità.
Come trovi sia lo stato dei centri storici e quale ruolo deve avere l’architettura oggi all’interno di essi?
G.S. I centri storici sono cresciuti senza norme scritte ma attraverso le pratiche. Le periferie, che invece sono cresciute con le leggi, le riconosciamo come luoghi difficili. Io credo che la forma tradizionale di trasformazione del progetto urbano debba mettere al centro le persone e la loro vita. C’è bisogno di sperimentare nuove forme di pianificazione che non possono rispondere semplicemente al recupero e alla conservazione. Oggi si abusa della parola “rigenerazione” e la confondiamo con “riqualificazione”. Sono due cose divere. Rigenerare è dare nuova genesi, nuova vita, e quindi non si parla solo del fabbricato in se ma di ciò che ci sta intorno. Occorre lavorare sul tema della partecipazione, condivisione e co-partecipazione.
F.C. C’è un ruolo che l’architettura gioca e uno che dovrebbe giocare. Uno è quello di preservarlo come luogo statico ed immobile, un prodotto da vendere a qualcuno. L’altro, che è quello che dovrebbe avere, è di facilitazione di produzione ed utilizzo sociale dello spazio. Quindi interazione tra i cittadini in un’ottica dinamica. Mi rifiuto di pensare che abbiamo rinunciato a modificare i centri storici. Non dico di demolire l’Arena di Verona, ma modificare lo spazio in base alle esigenze della città. Un esempio sono i pannelli solari sugli edifici vincolati che spiega come l’esigenza di energia finisca con lo scontrarsi con la rigidità delle normative. Bisogna tornare ad un’ottica di modifica rendendo protagonisti i cittadini e fare in modo che i centri tornino abitati e vissuti da chi lavora.
Vicenza è il classico modello di città a misura d’uomo. Può essere un buon laboratorio per un approccio partecipativo?
G.S. Il fatto è che Vicenza è comunque una città. Schio, ad esempio, è come un grande quartiere. Il tema è sempre la qualità delle comunità. Una delle crisi delle città è la crisi della vita comunitaria. Ho sperimentato che ci sono quartieri molto popolosi dove c’è un forte senso di comunità in cui è molto più facile lavorare. Dove c’è questo, tra l’altro, cresce anche la sicurezza e il benessere e i percorsi che partono dal basso riportano le persone a progettare il proprio quartiere per l’interesse comune.
F.C. Non per forza. Non è questione di dimensione della città quanto una serie di altri fattori che ci sono in piccole e grandi città allo stesso modo. Più è piccolo il contesto più c’è attenzione politica ad ogni minima idea. Ogni cosa diventa un caso. In un contesto più ampio queste cose passano attraverso le maglie della politica. Spesso ci si attacca al rifacimento del marciapiede e non c’è possibilità di sperimentazione vera e propria. Vi è un’attenzione costante dei politici su qualsiasi tema e c’è sempre qualcuno contro. In una scala piccola ci sono più possibilità di rete ma spesso sono orientate alla conservazione dello status quo.
Foto delle slide fornite da COCAI aps.