Dopo la morte del suo migliore amico Mingus non riuscì più ad uscire dalla sua condizione chimica. Gli psicofarmaci l’avrebbero protetto fino al giorno della sua morte, in Messico, a 56 anni, lo stesso giorno in cui esattamente 56 balene si arenarono sulla spiaggia di Acapulco. Cercare di dare un senso, alle 7 del mattino, all’hard bop di “Better Get Hit in Yo Soul” non è una cosa facile per me, a 56 anni, in questa città. La rabbia di Mingus contro la solitudine equivaleva al suo amore per essa. Amo da sempre quel fottuto bastardo mezzo cinese e mezzo negro di Mingus. Anche ora, appoggiato alla perdita del tempo lineare, in trappola in quello circolare, spiaggiato su un muro sotto a un portico.
Il quartiere è calmo e tranquillo al mattino e non ho niente da scrivere, oggi, che mi porti qualche euro in tasca. La città mantiene la sua aria da piccola viziata. Vicenza non ha registrato quasi niente di traumatico rispetto a quello che era la sera prima. Vicenza è un posto dove ti puoi nascondere se riesci a stare abbastanza in luce. Mi concentro un attimo su quel “quasi”, apro il taccuino e scorro velocemente gli appunti su Vicenza Jazz. Sono mezzo orbo ma leggere con gli occhiali da sole fa figo. Non ci posso rinunciare. Scrivere di un festival non ha molto senso per me. Qualche anno fa, in questa città, forse l’unico assessore illuminato che questo piccolo posto abbia mai avuto cercò di applicare l’idea che per essere musicale una città dovrebbe esserlo sempre. Sottoscrivo il suo pensiero e per me è difficile parlare di un qualcosa che ha come principale caratteristica la temporaneità. La musica Jazz c’entra relativamente. La musica, in quanto musica, ha sempre il potere di sciogliere le convenzioni e le convinzioni. La musica non aspira alla contemplazione da parte dell’ascoltatore, prevede sempre qualche forma di contaminazione con l’altro – anche se l’altro dovesse essere una delle tue personalità perverse – entra e trasforma alcune meccaniche in maniera abbastanza veloce. Ma per farlo deve essere continua. Non basta la cameretta onanistica, la collezione di vinili e l’abbonamento a Spotify. Serve portare la gente fuori d’estate e scaldarla ancora di più in club, in piazze e plateatici.
Vicenza mi ascolta, sente quello che dico e fa la smorfiosa, se la tira un po’ e annusa il mio alito da birra e sigarette. Dovrebbe solo ammettere a se stessa di non avere più un briciolo di innocenza e il gioco sarebbe fatto. Non credo lo farà mai, ma d’altra parte l’essere sfuggente, fare la belle de jour provinciale, praticare pompini in luoghi nascosti, sempre con quel senso di colpa – che la eccita ancora di più – è la cifra stilistica di questa città. Questa gente è fatta così, questa è la loro bellezza e la loro condanna. E questo è anche il senso dell’underground – ogni posto ha un proprio underground – di questo posto. Immagino di partire da questo underground un po’ morente per portare questa città fuori dal tunnel. Una buona terapia traumatica a base di musica, ogni giorno dell’anno. Immagino Vicenza come New Orleans in minore, prima e dopo l’alluvione. Musica 365 giorni all’anno, vecchi e arcigni residenti forniti di tappi e supporto psicologico per il loro odio verso tutto ciò che è vita. Tutto il resto c’è, è lì che aspetta, è pronto a muoversi, a rompere gli argini del vecchio, ammuffito motto vicentino “bareta fracà”. È pronto, fa parte dello spettacolo. Tipi urbani che hanno il proprio ruolo, ragazze riconoscibili e vecchie pulsioni che qualcuno soddisfa, relazioni che nascono e altre che muoiono, l’onda alcolica e quella erotica. La grandezza dell’inutilità di un parlare che almeno abbia un tono diverso. La musica del quartiere che esce dallo scantinato, Foucault che mi parla da due ore, senza interruzione, dei suoi istinti sessuali. Trovare alcuni amici, altri che trovano altri amici. Qualcuno che barcolla. Pochi vetri rotti. Una luce diffusa non troppo ma abbastanza sudaticcia. La mia tranquillità in un mattino alcolico in cui registrare ogni cosa, qualcosa negli occhi che ricorda i raggi X. Prima di mezzanotte la musica si trasforma nel flusso di voci. Verso le tre di notte la città si strucca e si prepara ad andare a dormire. Altra musica esce da uno stereo al bordo della Basilica, ci entro dentro a quella musica, seduto sulla scalinata e anche il terribile suono delle enormi macchine pulitrici sembra far parte del mood. Alle cinque di mattina qualcuno non smette di parlare sotto la mia finestra, non riesco a capire cosa dicono ma le voci non mi disturbano affatto. A qualche centimetro dal mattino, in qualche posto che non riesco a definire, una donna comincia a cantare. Non capisco se sia un pezzo registrato o l’ultimo regalo di una città in musica che esiste solo nella mia testa. In questo, niente di nuovo e niente di sbagliato. Meglio sempre una festa di amici che una famiglia gigante.