Una delle paure più grandi per un amante dell’arte in generale, è trovarsi di fronte ad uno dei propri idoli e rimanerne deluso umanamente. Ettore Scola è stato uno dei più grandi registi italiani e quindi uno dei più grandi al mondo. Ha descritto, prima da sceneggiatore e poi da dietro la macchina da presa, la figura dell’italiano come pochissimi altri. Non l’italiano medio per forza, ma l’arcitaliano del novecento. Le meschinità, le ebbrezze, i retaggi antichi, gli slanci in avanti. Coi suoi film si può vedere la storia del paese scorrere di fronte agli occhi. Nella sua particolarissima cifra ironica e disincantata c’è tutta la poesia della commedia all’italiana. Una commedia che spiega letteralmente chi siamo stati, meglio di molti drammi. Perché far sorridere anche amaramente e produrre altissima qualità narrativa, tecnica e attoriale è prerogativa dei grandissimi. Scola scrisse 70 sceneggiature prima di divenire il regista che poi è stato. Basti dire che sceneggiò, tra gli altri, “Il Conte Max”, Adua e le compagne”, “La marcia su Roma”, “Io la conoscevo bene” e quel capolavoro chiamato “Il Sorpasso”.
Il cinema di Scola si dovrebbe studiare per legge, dovrebbe essere imposto nelle scuole. Quella grazia, quell’eleganza, quel modo intellettuale eppure semplice di prendere le distanze dall’autocompiacimento per, invece, indagare tra le pieghe dell’io. Anche quando l’io è collettivo e ci si riferisce a sogni e speranze, o per meglio dire ideologie, che volevano cambiare il mondo o almeno renderlo un posto meno indecente. Scola è uno di quegli artisti a cui è impossibile non voler bene perché avresti voglia di essere dentro ai suoi film. Vorresti essere a tavola con Manfredi, Gassman e Satta Flores, vorresti essere anche solo un lontano parente di Carlo perché senti che quella Famiglia è anche la tua. Vorresti urlare la tua rabbia in una giornata che non ha senso chiamare particolare tanto sono stati incubo ed inferno quegli anni. Lo vorresti come padre. E quindi incontrare Silvia e Paola è stato come far finta di incontrare lui. E quella paura di rimanere delusi è svanita dopo i primi 7 secondi lasciando il posto ad un calore, una gioia e un affetto istantaneo per due donne che sono degne testimoni del padre e ne ricalcano tutto quello che i suoi film e la sua persona hanno comunicato.
Passare due giorni con le sorelle Scola è stato un vero privilegio. Farlo insieme a Mario Sesti ha fatto sì che il privilegio diventasse totale. Mario è uomo dotato di una cultura talmente vasta che, come gli intellettuali veri e non di posa, spazia tra alto e basso, tra sacro e profano, proprio perché di profano c’è ben poco quando si parla di arte e di cinema. Con lui si impara sempre qualcosa; la sua voce è puntuale, profonda e al contempo divertita, leggera, aperta al nuovo come ad una scena inattesa in una sceneggiatura del presente. Grande confezione per il secondo degli incontri chiamati “Cinema È Letteratura” organizzati da Luca Dal Molin, direttore della Biennale del Cortometraggio. Dal Molin porta avanti un discorso che unisce divulgazione a grande qualità e che coinvolge scuole e pubblico. In parallelo all’esperienza vicentina, sta organizzando la stessa rassegna anche a Treviso, con gli stessi nomi in aggiunta ad altri altisonanti (Carlo Verdone ad esempio). Speriamo che la città di Vicenza aiuti Luca come sta facendo il capoluogo della marca, perché, altrimenti, perderemo anche questa eccellenza. Se qualcuno là fuori, tra istituzioni e imprese volesse cogliere l’appello, ne saremmo ben lieti.
La nostra giornata inizia al Liceo Quadri. La professoressa Roberta Lievore, come sempre, è il motore dell’iniziativa in sede scolastica e i ragazzi presenti in aula magna sono preparati all’incontro. La loro attenzione e le loro domande stupiscono per capacità di sintesi, livello di curiosità e originalità delle tesi espresse. Se questo è il futuro, allora c’è da avere buone speranze.
Mario Sesti modera sia a scuola che poi, nel pomeriggio, alla galleria “& Art Gallery” di Nicola Bertoldo, altro tassello ormai fondamentale nel mondo culturale vicentino. Colpisce una delle domande di Sesti, che dà modo alle due splendide “ragazze” di descrivere con una risposta il senso stesso di cosa vuol dire essere Scola. Mario chiede: “quando avete capito che eravate figlie di Ettore Scola?” e così loro rispondono:
Silvia: “Prima del ‘64, l’anno della prima regia, aveva scritto sceneggiature per moltissimi registi e divenne amico di quei giovanissimi attori come Gassman, Manfredi, Sordi, Mastroianni. Ideando personaggi per mestiere, si trovava ad avere maggior dialogo proprio con gli attori. Fu Gassman nel ‘64 a dirgli “fallo tu questa volta il regista. Quando siamo nate, papà era già nel cinema. Era partito dai giornali satirici nel primo dopoguerra. Gente come Age e Scarpelli, Maccari, Flaiano e Fellini, era tutta passata dal giornale satirico “il Marc’Aurelio”. Dopo il neorealismo, questo gruppo di umoristi ha iniziato a scrivere per il cinema, dando vita alla commedia all’italiana. Questo mondo era già dentro casa nostra. Lo vivevamo come una cosa normale, sebbene essere “figlie di” era una condizione che ci toccava subire, nonostante nostro padre ci fece sempre partecipare e ci coinvolse fin da piccolissime. Era il mondo esterno a farci ricordare di più il fatto di essere sue figlie”
Paola: “Io me ne sono accorta dopo la sua morte. Sei anni fa. Il rammarico che ha mamma ad esempio, è che lui non avrebbe mai saputo quanto era amato. In vita, tutti avevamo una minore percezione di questa grandezza. Io l’ho vissuto molto di più come genitore. Come padre amatissimo, presente, punto di riferimento. Solo dopo ho avuto la percezione di chi fosse fuori dalla famiglia. Un anno prima che morisse, Silvia e io abbiamo fatto un documentario su di lui “Ridendo e scherzando”, condotto da Pif. Volevamo raccontare la sua carriera così com’è lui. Un uomo modesto, schivo, molto ironico. Ci serviva quindi un intervistatore che fosse in grado di entrare in sintonia con la sua ironia. Doveva essere una lunga intervista ma poi ci trovammo di fronte un Pif paralizzato dall’emozione e dalla reverenza”.
La mattinata scorre felice e i ragazzi magari non se ne rendono conto, ma stanno parlando con chi gli racconta la storia d’Italia di prima mano. Silvia e Paola non erano mai state a Vicenza e allora ci offriamo di organizzare un veloce tour per i siti in cui fu girato “Il Commissario Pepe”. Quindi su per la vietta stretta che porta a Villa Valmarana ai Nani, giù lungo viale Giuriolo, poi avanti fino alla rotonda della madonnina in Sant’Andrea e ritorno in piazza sotto alla Basilica dove imperversava la motocicletta di “Parigi”.
La semplicità di Silvia e Paola Scola è disarmante e conquista. Gli aneddoti e i ricordi si perdono tra una passeggiata e un bicchiere di Tai Rosso. Emerge la voglia di ridere di se stessi, questa sublime leggerezza che c’è nel vivere di cazzeggio, quando si può. Un cazzeggio d’autore, sia chiaro.
Gli si chiede di due rapporti speciali, quelli con Troisi e con la Loren.
Paola: “Nel ‘77 papà fece “Una giornata particolare”. L’incontro di questi due emarginati, di queste due solitudini. La Loren doveva interpretare la mamma di sette figli, una casalinga ignorante e fascista per mancanza di cultura. Nonostante avesse compreso perfettamente il ruolo, non accettava di essere così sciatta. Ogni tanto veniva sorpresa a mettersi il trucco. Un po’ di rimmel, il rossetto. Ovviamente non andava bene. Il film era ambientato in una sola giornata e le riprese durarono 13 settimane: serviva tutto fosse sempre identico. Ma lei non accettava di apparire brutta. Ogni fine settimana si vedevano i giornalieri: assistemmo a una telefonata con un cazziatone pacato tipico di mio padre in cui la distrusse. Le disse che era una donnetta, che pensava di aver preso una grande attrice e invece si ritrovava una cretina che pensava solo a come apparire: doveva scegliere se capire quello che stava facendo o se avrebbe dovuto guidarla lui parola per parola, gesto per gesto. Il cazziatone ebbe un grande effetto. La scena finale è l’esempio più folgorante della grandezza della Loren; alla fine della ripresa, tutta la troupe aveva le lacrime agli occhi e la applaudirono fragorosamente. E lei mandò a papà uno sguardo di riconoscenza”.
Silvia: “Troisi era il figlio maschio che lui non aveva mai avuto. C’era un affetto profondo tra loro, un’amicizia speciale, sembravano due innamorati. Troisi dava buca anche alle fidanzate pur di cenare da solo con Ettore”.
Il libro che le due sorelle e figlie sono venute a presentare si chiama “Chiamiamo il babbo” ed è un racconto bellissimo e pure molto divertente. L’anima della famiglia Scola traspare in ogni riga e ci si sente come invitati a farne parte, con quello stile e quella nobiltà tipica degli umili di classe. La forza del cinema di Scola è stata quella di dosare dramma e commedia e fare in modo si alimentassero l’un l’altro senza che uno negasse l’altro. Non è forse il senso stesso della vita?