Segni particolari: attivista

In Italia, quando sei maschio, eterosessuale e cattolico (come il sottoscritto) difficilmente ti trovi a subire qualche forma di discriminazione; è un po’ come vivere in una sorta di privilegio. Quando invece hai un colore di pelle diverso, sei diversamente abile, hai ricevuto in dono una fede diversa o non sei eterosessuale allora le cose cambiano. Quando incontri qualcuno che per molto tempo ha dedicato la sua vita a una causa, rischi di trovare nei suoi occhi una luce particolare che invidi. Mattia Stella è un 40enne che ormai da una quindicina d’anni si batte per i diritti della sua comunità e che non si è ancora stancato di dedicare il suo tempo a migliorare il mondo.

Cosa vuol dire essere un attivista dei diritti civili? È un lavoro? Uno stile di vita? Una missione? Uno scopo?

È un insieme di cose, soprattutto è una mission che una persona deve sentirsi dentro. È una cosa complessa e come tutte le “passioni” richiede continua formazione e capacità di elaborare un proprio pensiero. Allo stesso tempo richiede anche una disponibilità “altruista”: un attivista non si deve limitare a manifestare, ma deve essere pronto ad aiutare concretamente chi è in difficoltà. Si deve essere disposti ad affrontare i problemi in modo “pratico” e non solo teorico. Quando nel 2013 riattivammo Arcigay a Vicenza, poco dopo l’inaugurazione, si presentò un ragazzo di origini africane che aveva da poco fatto “coming out” in famiglia e per questo stava per essere rispedito nel suo paese di origine, dove per inciso rischiava la lapidazione. Ci attivammo subito, fu ospitato a casa di volontari e accompagnato in un percorso che l’ha condotto a trovare stabilità abitativa e lavorativa. Quel ragazzo nel frattempo ha anche concluso gli studi e oggi è decisamente più sereno.

Quando hai iniziato?

Nel 2008/9 appena tornato in Italia dopo aver vissuto a Londra. Tempo prima, a 27 anni, ebbi un periodo di insofferenza per Vicenza, che amavo tantissimo, e decisi di cambiare aria per un po’ andando a lavorare come ufficiale di compagnia sulle navi da crociera. Lì incontrai quello che poi sarebbe diventato mio marito; essendo lui era extracomunitario fummo costretti ad andare a vivere in Inghilterra, unico Paese approcciabile da entrambi in termini di visti, dove successivamente ci unimmo civilmente. Nel Regno Unito ho conosciuto un mondo lgbt+ molto più interessante rispetto a quello a cui ero abituato, per molti aspetti migliore. Mi colpì, tra le altre cose, come in Inghilterra le persone dichiarino molto più facilmente la propria sieropositività: in Italia questo accade assai raramente. Differenze dovute da aspetti culturali, ma anche da un diverso grado di tutele. A Londra ho avuto il piacere di scoprire cosa significhi sentirsi parte di una comunità e quanto questo sia importante. Poco dopo il mio rientro in Italia, naturalmente in coppia, mi fu proposto di partecipare agli eventi della associazione Aletheia e dopo qualche mese, inaspettatamente, mi fu chiesto di esserne il presidente. Da quel momento fui catapultato in prima linea.

Tu quando hai fatto coming out?

Non ricordo di preciso, forse a 17 anni. Ma con alcune persone già molto prima.

A chi ti ispiri?

Quando facevo l’attivista più in prima linea il mio faro era Harvey Milk. Ma da un punto di vista intellettuale Pasolini è sempre stato un maestro per me. Oggi invece seguo esclusivamente il mio sentire, perché come diceva Oscar Wilde: “Sii te stesso che ogni altro è già preso”.

Quanto conta appartenere alla comunità per cui ci si batte? E cosa pensi del fatto che sempre più facoltà stiano costruendo percorsi di studio per “attivisti”?

Per certi aspetti è un vantaggio sentirsi direttamente coinvolti in una causa, perché offre una spinta in più. A volte però questo si trasforma in un limite, poiché smarrisci quel distacco che a volte certe situazioni ti impongono. Per questo guardo con ammirazione le persone eterosessuali che gratuitamente si dedicano alla causa LGBT, trovo spesso abbiano una carica in più, ma anche una diversa capacità di analisi e vivono certe provocazioni meno di petto. Ritengo invece sbagliato il “professionismo”, se questa era la tua domanda. Il fare qualcosa per notorietà o per raggiungere qualcosa è un errore, non solo etico.

La comunità LGBT non è sempre unita nelle battaglie, penso ad alcuni noti omosessuali che si sono espressi contro l’adozione, cosa ne pensi e da cosa pensi dipenda?

Gli omosessuali sono una comunità e quindi è naturale che al suo interno vi sia diversità di punti di vista. Mi è capitato anche di avere a che fare con persone omosessuali che non davano la giusta importanza al coming out: quando questo succede cerco sempre di comprendere le loro motivazioni. Provo grande difficoltà invece nel confrontarmi con omosessuali che negano fatti storici importanti come la persecuzione nazi-fascista e la reclusione di omosessuali nei campi di concentramento. Le comunità si fondano sulla memoria storica, su un percorso comune di chi ne fa parte. Assumere posizioni negazioniste, così come vivere con indifferenza per tutto quello che ci ha reso ciò che siamo, ci sminuisce come persone.

Quanto è cambiata la vita di chi appartiene alla comunità LGBT negli ultimi 15 anni?

Tantissimo: c’è maggiore consapevolezza e c’è qualche diritto in più (ma avremmo potuto averne altri ancora). Affrontare la questione della legge Cirinnà ci ha aiutato a capire che ci si poteva battere e che serviva cercare alleanze. Quella stessa battaglia ha rafforzato in noi anche l’importanza del sapere scendere in piazza. Non tutti si schiodano dal divano per difendere i propri diritti o quelli che vorremmo fossero anche nostri diritti. Il DDL Zan non ha goduto della mobilitazione generale che avevamo visto ai tempi del DDL Cirinnà. Non voglio cadere in luoghi comuni, ma è impressione diffusa che molti omosessuali siano più impegnati sul divano che nelle piazze, al contrario di quanto accade più spesso nella comunità trans, molto più motivata e determinata.

Vicenza è una città gay friendly?

Non necessariamente, o per lo meno non in senso stretto. Vicenza è una città fedele a se stessa. Un luogo dove tutti possono sentirsi accolti fino a quando non cercano di imbastire rivoluzioni. Finché mantieni un low profile non avrai mai problemi, altrimenti l’atteggiamento nei tuoi confronti potrebbe essere di diffidenza . Però va detto che se ti impegni a spostare gradualmente , passo dopo passo, giorno dopo giorno, il confine, possibilmente in punta di piedi e umilmente , allora ecco che le sorprese non mancheranno. In fondo Vicenza, città due volte medaglia d’oro, sa ben resistere alle cannonate, ma al contempo può cedere al “fascino” della rassicurazione. Insomma cambia per poter rimanere se stessa.

Com’è stato organizzare il Pride a Vicenza?

Organizzare il Pride richiede un grosso sforzo organizzativo, ma non si può negare , in ogni caso, che quello del 2013 è stato un po’ più facile di quello del 2019 perché l’amministrazione era più “attrezzata” sui temi dei diritti. Anche se forse proprio per questo va premiato doppiamente l’impegno che alcuni amministratori ci hanno messo.

Quanto conta la cultura nel processo di accettazione personale e della società dell’omosessualità?

Conta tantissimo perché i riferimenti culturali e sociali sono indispensabili per ritenersi comunità. Senza storia non esiste comunità.. per esempio, quando abbiamo cominciato a raccontare quanto era successo nei campi di concentramento agli omosessuali , c’è stato un significativo aumento della consapevolezza. Non è che prima non lo sapessimo, ma poi è c’è più diffusa consapevolezza.

É davvero nella scuola che si insegna ai bambini a diventare tolleranti?

Credo che sia soprattutto in famiglia. La tolleranza è un valore e nel momento in cui siamo cresciuti da persone che lo considerano un valore, impariamo la tolleranza. Mentre, permettimi di dire, per conoscere la diversità fra i generi bastano le relazioni che si instaurano con le persone vicino alla famiglia, non necessariamente genitori di genere diverso. Assimiliamo le differenze da chi ci circonda, a prescindere dal tipo di legame che ci accomuna. Inoltre viviamo in una società talmente complessa che è impossibile non imbattersi nella diversità, nella ricchezza che ognuno di noi sa trasmettere in quanto parte di una collettività.

L’adozione, la possibilità di avere figli, senza rinunciare alla propria identità, cosa significa per un omosessuale?

È un aspetto interessante, il fatto di avere figli è un percorso importante a prescindere dall’essere omosessuali. Per gli omosessuali è più complesso perché si vive una situazione diversa. L’adozione resta un passaggio necessario nella crescita di certi soggetti. Non è un bisogno che io sento, ma riconosco che per altri è importante. Però è un tema che merita un confronto aperto , libero dai pregiudizi.

Visto che hai una certa esperienza anche politica ti chiedo, per chi viene da un’azione più “movimentista” e “monotematica” (perdona i termini , ma sono i primi che mi sono venuti), come ci si trova a nuotare nella politica più generalista, più mainstream?

Male, si ha sempre l’impressione di non essere compresi fino in fondo. E poi i partiti affrontano certe questioni sono in determinate situazioni o in determinati momenti e questo ha delle ripercussioni sugli attivisti. Ho imparato dalla mia esperienza che non ci si deve fossilizzare su un unico tema. Bisogna saper declinare una posizione su diversi temi per muoversi nella politica “generalista”.

Perché i diritti degli omosessuali sono sempre un tema di sinistra?

Non siamo in Inghilterra dove i conservatori hanno proposto e appoggiato una legge per il matrimonio egualitario. In Italia quindici anni fa un sindaco di Treviso evocò la pulizia etnica contro i ‘culattoni’. Un suo collega dalla provincia di Vicenza disse che ci vuole una tassa per gli omosessuali perché non procreando non contribuiscono alla società. La destra italiana rimane in buona parte illiberale. Ci sono persone sensibili al tema anche a destra, ma vengono messe all’angolo se non si conformano a certi standard tipici della tradizione destroide italiana.

L’anticlericalismo che pervade la comunità LGBT lo condividi o no?

Lo condividevo, in parte, nel senso che ne comprendevo le ragioni. Però con l’avvento di Papa Francesco è cambiato l’atteggiamento della Chiesa, c’è maggiore predisposizione all’ascolto. Forse questo non implica anche quel cambio di passo repentino che magari molto auspicavano, ma la Chiesa non è una istituzione come le altre, è qualcosa di molto più complesso. È appunto questa sua complessità il suo punto di forza, ciò che le ha consentito di sopravvivere a tutte le epoche che si sono susseguite. Forse quel punto di forza rischia di tramutarsi in un limite in un presente ancora più complesso della Chiesa stessa. Ma ad ogni modo, trovo si debba partire da quelle porte che nel frattempo si sono aperte, non tanto da tutto quello che invece è rimasto chiuso a chiave.

Quali sono stati i momenti più significativi della tua esperienza?

Il riconoscimento delle coppie di fatto a Vicenza, avvenuto nel 2012, che fu il risultato di un lungo lavoro iniziato con una raccolta firme. Non ci metto il cappello , perché in molti ci lavorammo, ma sono fiero che l’idea di quella raccolta firme fosse partita da me. Poi ovviamente il primo Pride del 2013. Ma lascio volentieri il testimone ad altri per organizzare il prossimo, in fin dei conti in provincia di Vicenza ci sono più associazioni che a Milano

Qual è la prossima battaglia ?

Lo scorso anno la relazione con il mio partner ha conosciuto un momento di forte crisi e ci siamo lasciati. In quel periodo ho ripreso in mano Alex Langer, il quale ha scritto delle pagine bellissime sulla fede. Da lì ho colto una luce che non avevo visto prima, una bellezza che avevo in precedenza ignorato. Da lì è iniziato un percorso di riavvicinamento alla fede, in punta di piedi, umilmente. Questo mi ha arricchito perché mi è stata offerta la possibilità di mettermi alla prova, ma non per me stesso, semmai in relazione agli altri e a ciò che mi circonda. Da lì è nata maggiore consapevolezza di quanto sia importante difendere il pianeta in cui viviamo. Se crediamo che la relazione tra l’uomo e la terra non si è conclusa, dobbiamo riscoprire il nostro ancestrale amore per quella natura di cui facciamo parte. Quella per l’ambiente è per me oggi la priorità, senza una terra su cui vivere anche i diritti diventano inutili.

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