Il Parco della Pace, sessantacinque ettari di suolo riconquistato, un polmone che gonfia i polmoni della città come un mantice divino. Non è un parco qualunque: è il più esteso d’Europa in proporzione alla popolazione locale, un colosso di seicentotrentamila metri quadrati che rivaleggia con il centro storico stesso, e che proprio in questi giorni di fine settembre si è aperto al pubblico come un libro sacro, pronto a essere sfogliato da famiglie, da escursionisti, da anime in cerca di quiete o di agitazione interiore. Ma oltre a tutto questo, il parco è un monumento alla lotta, un’epica laica nata dal ventre della protesta, e in esso si condensa quella eterna dialettica tra la pace gridata nei comizi e la pace sofferta nelle trincee della storia. Il Parco della Pace non piove dal cielo come un dono della Provvidenza o un capriccio amministrativo: nasce dal sudore e dalla rabbia di una mobilitazione popolare, il Comitato No Dal Molin, che dal duemilasei-sette infiamma le piazze vicentine contro l’espansione della base militare americana di Del Din, quel Dal Molin che era un vecchio aeroporto dismesso. Anni di cortei, di catene umane, di notti insonni sotto le stelle ostili, mentre i potenti – da Washington a Roma – decidevano di cementificare la terra per perpetuare l’illusione di una difesa atlantica che sa di Guerra Fredda riscaldata. Il parco è la compensazione, il trofeo strappato al drago: non un regalo, ma una conquista, come gridano ancora oggi i comitati cittadini, che lo difendono da ogni tentativo di rinominarlo o di sminuirne l’anima ribelle. È nato, dunque, da un rifiuto viscerale della guerra come destino, da un “no” che riecheggia i profeti biblici e i partigiani delle malghe: per dire che la pace non è astrazione, ma sottrazione di spade al suolo fertile. Ma è in tutti questi “pregi” che si annida la pesante e spesso insopportabile retorica della pace che si scontra con la verità della pace. E per questo parco si spera si vada ben oltre ai motivi della sua nascita e diventi qualcosa di anti retorico e quindi vivo.

Il parco si è aperto con un’alba interreligiosa, il ventisette settembre, sotto lo sguardo del sindaco di Betlemme, Maher Nicola Canawati, che invoca la fine del genocidio a Gaza, mentre cristiani, musulmani, ebrei, bahà’ì e hare krishna intonano preghiere tra oboi e viole, citando Isaia: “Trasformeranno le spade in vomeri”. Bello, poetico, commovente: un flash mob di fedi unite, un patto di fratellanza rinnovato a Palazzo Trissino. Ma è pace vera o da slogan, quella? È la pace dei comunicati stampa, dei dibattiti nonviolenti nella Tenda Cirkus, dei voli di aquiloni che danzano come colombe simboliche durante la festa inaugurale. La verità della pace è altra cosa, è il sangue versato nei Balcani o in Ucraina, è il negoziato spietato tra potenze, è la deterrenza che tiene a bada i demoni – sì, quella stessa alleanza atlantica che qui si volle respingere. La retorica è il velo di Maya, la verità è la croce: questo parco, nato da una lotta anti-militare, oggi ospita forse un ponte per comprendere che la pace reale non tollera ingenuità, ma esige realismo, diplomazia ferrigna, il riconoscimento che il mondo è un’arena, non un campus. Eppure, in questo contrasto, balugina il bisogno imperioso di una pace reale, non effimera, non da hashtag o da giardini simbolici. È il grido che sale dal suolo vicentino, terra martoriata da due Guerre Mondiali e da cento anni di caserme straniere: un bisogno di spazi dove la pace si respiri, non si declami. È la pace che si costruisce con i piedi nella mota, con i figli che corrono su prati vasti, con le comunità che si radunano non per urlare, ma per tessere. Senza questo, la retorica diventa ipocrisia, e il parco – per quanto maestoso – un cimitero di buone intenzioni.

Il complesso del Parco della Pace in sé, è un capolavoro di ingegneria paesaggistica, un’epifania verde su un terreno un tempo sterile e marziale. Immaginate un’ex pista d’atterraggio, piana come un foglio bianco, trasformata da un movimento titanico di duecentquarantamila metri cubi di terra: rilievi artificiali che generano colline dolci, valli accoglienti, un mosaico di paesaggi dove l’acqua – protagonista assoluta – scava canali e bacini, riflettendo il cielo veneto in specchi d’azzurro. È un’infrastruttura verde calcolata con precisione chirurgica, integrata di soluzioni nature-based: sistemi di drenaggio sostenibile che ingoiano le piogge furibonde, forestazioni urbane che erigono boschi nuovi come cattedrali vegetali, praterie vaste dove il vento canta inni silvani. E poi, gli elementi umani: la Porta Est, ingresso regale, dove gli hangar dismessi – reliquie industriali – sono rinati come templi laici della cultura, spazi per concerti, associazioni, tempo libero, animati dal festival Hangar Palooza con le sue notti di suoni e luci. L’Area Sport, un’arena polifunzionale con torre per arrampicata, skate park, campi da green volley, tiro con l’arco, persino canoa sui canali – e una tensostruttura coperta per pallamano, basket, calcetto, con spogliatoi collegati come in un olimpionico sogno. Percorsi pedonali serpeggiano per tutti, dal passeggiatore pigro all’atleta frettoloso; zone wild, inviolate, per flora e fauna – visite guidate con WWF e LIPU svelano uccelli e piante come segreti di Stato. Orti urbani per i contadini metropolitani, Piazza della Pace come cuore pulsante, un Giardino della Memoria che custodisce targhe e storie silenziose. Recintato, sì, ma aperto: un polmone metropolitano che collega il centro palladiano ai comuni vicini, un attrattore territoriale dove la biodiversità non è slogan, ma realtà tangibile, premiata per la sua sostenibilità e il riuso sapiente del passato. In questo parco, Vicenza non ha solo guadagnato un verde paradiso: ha scolpito un monito. Che la pace sia verità, non retorica; conquista, non concessione; azione, non illusione. E che questo sia il parco di tutti i vicentini e non e non sia visto come “il parco di Possamai”. Altrimenti, anche questi sessantacinque ettari rimarranno un sogno interrotto, e noi – eredi di troppi September – continueremo a inseguire ombre invece di abbracciare la luce.










