A TAVOLA CON SAN GREGORIO: IL CAPOLAVORO DEL VERONESE IN UN LIBRO

Sabato, con una presentazione avvenuta presso la sala detta “del quadro” nel santuario di Monte Berico, è stato presentato il libro Carità e pace a tavola con san Gregorio Magno, edito da Gruppo S.EDI.C.I che vede la collaborazione di ViCult in quanto magazine del gruppo editoriale.

Padre Carlo Rossato Rettore del Santuario e Priore del Convento di Monte Berico
Il Vicesindaco di Vicenza Isabella Sala

Il lavoro dell’autrice Agata Keran, storica dell’arte, curatrice del Museo d’arte sacra di Monte Berico, nonché collaboratrice di questo giornale, è stato lungo e preciso, con un’attenzione particolare alle fonti storiche oltre agli aspetti tecnici e contenutistici dell’opera.

Agata Keran dialoga con don Giuseppe Berardi

Parliamo chiaramente della monumentale Cena di Paolo Veronese. La Cena di San Gregorio Magno, opera del 1572 di Paolo Caliari detto Il Veronese, adorna la parete di fondo dell’antico refettorio del Santuario di Santa Maria di Monte Berico; il dipinto, di dimensioni monumentali (cm 4,45 x 8,78 per un totale di circa 39 mq), è considerato uno dei capolavori della maturità del Veronese, primario esponente del Rinascimento italiano e, insieme al Tiziano e al Tintoretto, della pittura veneziana cinquecentesca. Tra tutte, la Cena di San Gregorio Magno è l’unica ancora conservata nel luogo per il quale fu creata. La scena rappresenta una delle cene che San Gregorio soleva offrire ai pellegrini, durante la quale accanto al pontefice, per premiarne la carità, appare Gesù.

Presentiamo qui, solo per nostri lettori, l’introduzione e degli estratti dal penultimo capitolo del libro che si trova da oggi in vendita presso il santuario e prossimamente anche nelle principali librerie cittadine. Impaginazione e grafica curate da Sandro Scalabrin.

CAPITOLO I: LA STRAORDINARIA BIOGRAFIA DI UN CAPOLAVORO

Il grande telero del Veronese, collocato sin dalle origini nell’antico refettorio del convento di Santa Maria di Monte Berico, rappresenta una scena conviviale che si riferisce a un episodio dell’agiografia di san Gregorio Magno (†604), pontefice romano e uno dei quattro grandi dottori della Chiesa. La scena rappresenta Gesù in dialogo con il papa, apparso in veste di pellegrino per premiare l’impegno di questo testimone della fede, che era solito accogliere i bisognosi, offrendo costantemente il proprio sostegno, in tutti i tempi della sua vita. L’immagine rappresenta, dunque, una teofania, cioè una manifestazione divina, che solo lo sguardo spirituale di san Gregorio riesce a cogliere. Attraverso il gesto delle mani, che rivelano il sussulto interiore del papa, nel momento del riconoscimento, il pittore ci rende partecipi al sentimento di commozione silenziosa ma profonda di questo dono inatteso. L’opera è stata commissionata nel 1572 dai Servi di Maria, durante il priorato di fra’ Damiano Grana da Verona (1520?-1596). Personaggio di notevole levatura culturale, questo frate è particolarmente interessato all’arte, come dimostra il suo impegno profuso non solo a Monte Berico, ma precedentemente a Santa Maria del Paradiso a Verona e successivamente a Santa Maria in Via a Roma. La tradizione storiografica vorrebbe individuare come zio materno dell’artista, indicando nel volto del Servo di Maria, dipinto all’ingresso della loggia in cui si svolge il racconto visivo, il ritratto del priore Grana. Al di là del supposto legame parentale, senza riscontri d’archivio, è da attribuire verosimilmente a questo religioso il complesso programma iconografico dell’opera. Durante la temperie napoleonica, nel 1811, l’opera viene individuata «dai delegati per R.R. Gallerie, e da spedirsi a Milano». Dopo il trasferimento nella Reale Pinacoteca di Brera, tornerà nella sua sede originaria nel 1817. Nel corso della battaglia risorgimentale del 10-11 giugno 1848, in seguito all’irruzione dell’esercito imperiale nel santuario, il telero veronesiano viene lacerato dai soldati a colpi di baionetta. Per la ricomposizione dell’opera si dovranno aspettare circa dieci anni e un colloquio a tu per tu tra il priore del convento mariano, Giannangelo Magnaghi, e l’imperatore Francesco Giuseppe, durante la sua visita al santuario nel gennaio 1857. Riassume così questo fortunato incontro fra’ Giovanni Dalla Vecchia, nelle sue Memorie:

Il 6 Gennajo S.M. l’Imperatore Francesco Giuseppe I, insieme colla sua Consorte visitò il Santuario e il forte di Monte Berico. Ascoltò quivi la S. Messa, dopo la quale il Padre Priore lo pregò di voler fare sgombrare il convento dalla truppa L’Imperatore rispose: quanto prima lo farò e di più darò restaurare a mie spese il quadro di Paolo Veronese, perché venga ricollocato al suo posto nel Refettorio. Così fu fatto: di fatti nel marzo il monte rimase sgombro dai militari, e il quadro che si trovava in 32 pezzi nella Pinacoteca di Vicenza fu inviato all’Accademia di Venezia e consegnato al famoso ristauratore Andrea Tagliapietra.

Di recente, tra il 2019 e il 2022, l’opera è stata sottoposta a un restauro preceduto da uno studio approfondito della tecnica esecutiva dell’opera. Il cantiere si è svolto nell’ambito delle Restituzioni, in occasione del trentennale di questo «programma di restauri di opere d’arte appartenenti al patrimonio nazionale», promosso e curato da Intesa Sanpaolo, in collaborazione con il Ministero della Cultura. Si noti che il progetto delle Restituzioni nasce proprio a Vicenza nel 1989 e, pertanto, si comprende la scelta simbolica di restaurare «una delle più alte testimonianze d’arte della città», affrontando un’operazione di grande complessità, considerando il vulnus storico dell’opera. Le pagine che seguiranno a questa breve introduzione desiderano offrire un viaggio nell’universo storico e spirituale di un’opera che custodisce un messaggio di grande forza e di attualità, in grado di trascendere i propri confini religiosi e di parlare una lingua universale, quella dell’umanità assetata di pace e di giustizia sociale.

ANEDDOTI E CURIOSITA’

Un giallo mai risolto: chi ha ucciso Giovanni Antonio Fasolo?

«La calunnia è un venticello, […] nelle orecchie della gente s’introduce destramente e le teste ed i cervelli fa stordire e fa gonfiar», avverte la famosa aria de Il barbiere di Siviglia. Il suo soffio nefasto macchiò in passato il racconto biografico di Paolo Veronese, incolpato ingiustamente nel Settecento, di aver causato la morte di un suo epigono, Giovanni Antonio Fasolo (1530-1572), mentre erano impegnati assieme in un cantiere a Vicenza. Ad ogni modo, il quarantaduenne Fasolo, assai stimato per il suo talento a Vicenza e dintorni, cade rovinosamente il 23 agosto 1572 da un’impalcatura, dipingendo un ciclo di affreschi all’interno della Loggia del Capitaniato. L’ipotesi accusatoria si sbriciola facilmente da sola: l’accusatore non cita la fonte da cui trae la notizia, sbaglia il luogo in cui accade la disgrazia, non tiene conto della fragilità del movente per gelosia professionale, del tutto improbabile considerata la sproporzione tra i due artisti. Sebbene Fasolo sia un’indiscutibile eccellenza nel panorama locale, probabilmente neanche si sogna di competere con il virtuosismo e la fama del Veronese. Un colpo di ira dovuto a un litigio scoppiato in cantiere, allora? Viene meno anche tale teoria, considerando che Paolo non era presente sul posto, perché impegnato altrove. Si tratta, insomma, di un’autentica bufala destinata a viaggiare indisturbata per oltre un secolo prima di giungere al setaccio critico dell’abate Antonio Magrini, illustre studioso del patrimonio artistico locale. Attraversando la produzione dello sventurato pittore di origine lombarda, Magrini giunge ad affermare: «Dove poi sarebbe giunto col profitto nell’arte il Fasolo, se all’epoca della sua morte era salito a così alto punto, non lice il conghietturarlo. È debito però confessare che, in onta al merito degli ultimi suoi lavori, egli era ben lungi dal pareggiare quelli di Paolo, che, giunto nel 1572 all’apice della celebrità, non potea sentirne invidia, da imputarsi cagione di un vile e deplorando attentato, il quale, se non fu confuso con una accidentale caduta, dovette essere vergognoso concepimento di emuli meno gloriosi» (A. Magrini, Cenni storico-critici sulla vita e sulle opere di Giovanni Antonio Fasolo pittore vicentino, Venezia 1854, 64). E cosa c’entra tutto ciò con il telero di Monte Berico? Come riporta il monsignor Sebastiano Rumor, senza nascondere le proprie perplessità, «fu detto e ripetuto che il Veronese dipingesse questa Cena nel convento dei Serviti di Vicenza trovandosi lì in asilo onde sfuggire alla giustizia, in seguito al grave sospetto, sotto l’ala protettrice dello zio priore» (S. Rumor, Storia documentata del santuario di Monte Berico, Vicenza 1911, 318). Grato dell’ospitalità ricevuta, secondo questa diceria, avrebbe chiesto ai frati un compenso per l’opera davvero modico, in rapporto al suo solito cachet. Ma i documenti superstiti parlano e le date non coincidono: il giorno dell’incidente mortale di Fasolo il telero doveva essere già compiuto.

Sua Maestà Francesco Giuseppe a Monte Berico

La restituzione del telero avvenne per volere dell’imperatore Francesco Giuseppe I d’Austria (1830-1916). Occorre premettere che Sua Maestà apprese con sincero sgomento la notizia dello scempio compiuto all’interno di un luogo particolarmente caro ai suoi familiari. Le cronache del convento vicentino ricordano, infatti, che il 14 aprile 1800, giungeva in visita l’arciduchessa Maria Anna d’Austria (1770-1809), sorella dell’imperatore Francesco I e prozia quindi di Francesco Giuseppe. In quell’occasione, la principessa-badessa scelse di dedicarsi con grande slancio all’esercizio spirituale, accettando con gratitudine di essere alloggiata in «un povero e modesto appartamento del convento». Durante il suo soggiorno, secondo le fonti, passava «quasi tutta la mattina e parecchie ore del pomeriggio in chiesa, prostrata innanzi alla venerata immagine», cioè davanti alla statua quattrocentesca della Madonna di Monte Berico (cfr. F. Mantovani, Il Santuario della Beata Vergine del Monte Berico sopra Vicenza. Notizie storiche compilate da religioso dei Servi di Maria, II, 1898-1911 ca., 112). Circa tre lustri più avanti, precisamente nel 1818, Francesco I esaudì la preghiera dei frati custodi del santuario di riportare a Vicenza il celebre telero, requisito dalle autorità napoleoniche nel 1812 e deposi tato a Brera, in attesa di una formale collocazione. Dopo il ferimento dell’opera nella battaglia del 1848, Francesco Giuseppe si fece carico di un restauro affidato al maestro Andrea Tagliapietra, pittore di storia e membro dell’Accademia di Belle Arti di Venezia. L’opera fu ricollocata nella sede originaria il 19 maggio 1958, come riporta anche un’iscrizione pavimentale dell’ex refettorio, noto ora come “sala del Quadro”. Un documento conservato nell’archivio conventuale racconta che il 6 gennaio 1857, «in occasione che Sua Maestà l’imperatore Francesco Giuseppe regnante venne in codesto santuario», il priore Giannangelo Magnaghi «gli avanzò una supplica». E il sovrano lo assicurò prontamente: «Io ho già ordinato che il quadro di Paolo Veronese sia ristaurato a mie spese e collocato a suo posto» (Archivio conventuale di Monte Berico, A. Barberini, Memorie storiche sul quadro di Paolo Veronese).

Al tempo di Napoleone

Le truppe francesi entrarono in città il 27 aprile 1797, dando avvio alla costituzione di pubblici ordinamenti ispirati alle dottrine rivoluzionarie. Circa un mese più tardi, il 29 maggio venne disposta «una generale requisizione dai commissari francesi di tutte le argenterie delle chiese, sì di città come di tutto il territorio, e così di tutte le fraglie e le confraternite, […] le quali furono ridotte in verghe e spedite a Milano», come si racconta nel Repertorio di avvenimenti di ogni genere nella reale città di Vicenza dall’anno 1700 (ms. 1655), conservato nella Biblioteca civica Bertoliana. In questo primo momento la grande Cena di san Gregorio rimase al suo posto, nel convento di Monte Berico, spogliato invece dai suoi argenti. Ma il peggio doveva ancora arrivare. Infatti, con il decreto napoleonico di Compiègne del 25 aprile 1810, si procedette alla soppressione di «stabilimenti, corporazioni, congregazioni, comunità ed associazioni ecclesiastiche di qualunque natura e denominazione», eccetto alcune istituzioni di carità e congregazioni con finalità educative. Vietò inoltre a tutti «di vestir l’abito di veruno ordine religioso». Di conseguenza, anche la comunità dei Servi di Maria fu costretta a un lungo periodo di esilio dal santuario mariano, protrattosi poi fino al 1835. Nel 1812, la lunga mano dei confiscatori francesi giunge anche al telero di Paolo Veronese, che viene trasferito a Milano presso la Pinacoteca di Brera, da dove tornerà solo nel 1817. Una voce non documentata attribuisce al pittore neoclassico François-Guillaume Ménageot (1744-1816) – amico dei frati di Monte Berico – il ruolo di mediatore pronto a “sconsigliare” il trasporto dell’opera a Parigi e il suo inserimento nella collezione del Museo di Louvre.

Si ringrazia la Fondazione CUOA per il progetto “Intrecci tra cultura e spiritualità” senza il quale questo libro non avrebbe avuto vita.

Febbraio 2025

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