È uno scherzo caro Beppe? Uno dei tuoi divertissement un po’ naïf, un po’ surrealista con cui ti piace solleticare fantasie troppo assopite di chi nella vita si è arreso a sonnecchiare invece che sognare? Hai inventato qualche nuovo gioco di immaginazione, dove alla fine ti scopriremo dietro il palco, con un sorriso sornione?

Da quando ho iniziato a seguire come curatrice gli Acquerellisti Berici, con cui hai condiviso tutte le avventure espositive, ad ogni chiamata al raduno di opere nuove, le tue giungevano sempre in modo tempestivo e a raffica. Una quantità impressionante di fogli di grande formato dove il racconto visivo di volta in volta era ed è unico, anzi monadico, come un sogno che al risveglio si scoglie di colpo senza lasciare dietro orme, senza sdoppiarsi o indugiare specchiandosi nella realtà del giorno. A quasi ogni immagine accompagnavi un testo poetico, breve o lungo, in grado di riportare alla luce la storia, sempre intensamente vissuta, di cui il dipinto era una saliente e irripetibile istantanea.

Ho scoperto poi il tuo sorprendente talento fotografico. Durante i mesi di «clausura», soffrendo di dover rinunciare ai tuoi viaggi in Oriente, alla stregua di novello Marco Polo, ti sei dedicato a pubblicare di giorno in giorno sui social il «Giardino di Pandèmia», con una suggestiva serie di scatti dedicati a dettagli naturalistici, di piante e altre presenze curiose che passavano allora davanti al tuo sguardo, capace di trovare un divertimento in quelle piccole, spesso impercettibili meraviglie che rendono speciale e unica la vita di ogni giorno.

A fine novembre, dopo un intervento in ospedale, mi hai scritto: «Sento voglia di vivere. Avrei anche un progetto di foto da proporti, ma coi tempi che corrono, tutto può attendere». Si tutto può attendere, tranne quell’ultima chiamata a cui nessuno si può sottrare. Ma è uno scherzo, vero? In ogni caso, caro Beppe, viaggia con gioia attraverso i pascoli dell’infinito! E la bellezza ti rimanga sempre compagna.
Camminammo sulle acque
a volte attenti a dove mettere i piedi
a volte guardando i pesci zitti come sempre
mentre il cielo dopo un forte bagliore
si andava spegnendo
senza fare rumore (si può dire?).
L’aria fresca e umida teneva a riposo gli alberi
calando dai fianchi dei monti
e l’acqua era una leggera morbida vibrazione
di un piano giallo verde azzurro
aspettando un moto che allargasse i cerchi,
pluff!
tanti piccoli cerchi,
neanche un grido
neanche un’eco lontana
neanche un canto di mille sirene,
neanche l’urlo che mi scuote da dentro
e che esplode con forza nel mare
e agita le onde nel profondo
e spara gli spruzzi sulle alte scogliere
neanche i vortici e il rumore profondo
e lo scroscio e il sibilo dentro i gorghi
neanche il tempo che da lontano viene cieco
e cammina piano e quieta ogni passione
ogni rivoluzione: siam giunti camminando
e il passo era calmo nella via solitaria
da qualche parte la terra è finita,
dove siamo è la terra finita.
Poesia di Giuseppe Pasetto
(ricevuta in lettura nel novembre 2021)
