Su ViCult si parla di cultura, non di cronaca, ma ci sono temi che permeano la società e in un tempo pandemico (dire post sembra prematuro) ci colpiscono di più e ci interrogano.
Quanto la pandemia ci ha cambiato o quanto la situazione era già questa e non eravamo abbastanza sensibili per sentirla con la stessa intensità?
La riconquista dell’Afghanistan da parte dei Talebani è un evento spartiacque nel conscio comunitario è la vittoria di una cultura patriarcale che sottomette le donne sulla nostra cultura fintamente evoluta: la violenza sulle donne continua ad essere perpetrata e agita, e non ci sono luoghi in cui non avvenga.
La cultura riformista tende a guardare i paesi nordici come un’oasi felice, ma le statistiche non dicono questo, le statistiche dicono che anche in paesi laici ed evoluti la violenza sulle donne esiste e ha un connotato diverso, particolare e proprio. Il femminismo tende a prendersela con la religione, ma sembra che anche gli atei abbiano abitudini violente.
Si è cercato di porvi rimedio politicamente e normativamente, istituendo il concetto di “femminicidio”, ma i risultati tardano ad arrivare. Sembra che le uniche iniziative che hanno dato risultato siano state quelle che si sono concentrate sull’educazione dei bambini, ma hanno tempi così lunghi di attuazione che per vederne dei risultati si dovrebbe aspettare un decennio. Perché questo ne parliamo in un giornale di cultura: perché la cultura è pensiero e forse dove si ferma la politica, la giustizia e l’educazione c’è bisogno di un pensiero divergente, libero, spericolato e determinato.
La violenza sulle donne viene sempre affrontata da quella parte della società più evoluta, più “studiata”, ma la violenza è perpetrata da soggetti che di evoluto e consapevole non hanno nulla. Ad agire violenza consapevole sulle donne non sono gli uomini cresciuti a pane e non-violenza o che sanno chi disse “I Have a dream”. Inutile e dannoso far finta che il contesto educativo in cui sono cresciuti certi omuncoli sia uguale a quello di uomini civili. Chi pratica la violenza sulle donne l’ha respirata in un contesto valoriale distorto e antiquato… “Talebano” per intenderci.
Non si può continuare a comunicare l’orrore della violenza col linguaggio di chi la subisce, perché è incomprensibile agli aggressori. Bisogna cominciare a additare la vergogna e il disonore della violenza sulle donne col linguaggio che certi “primati” possano capire e soffrire. Se parlassimo con dei talebani dovremmo andare a colpire nelle scritture per confutare la loro posizione, con i nostri assassini bisogna colpirli nella loro dignità, nella loro vergogna, nella loro virilità. Si deve ricordare il “paradosso della tolleranza” di Karl Popper e declinarlo in questo contesto: non si può restituire la violenza fisica, ma si deve cominciare a considerare la violenza verbale un’opzione, se non l’unica opzione.
Inutile dire a un possibile “aggressore” o “assassino” che quella cosa è sbagliata, bisogna cominciare ad additarlo come “codardo”, ma soprattutto “sub-dotato sessualmente” perché queste sono le cose che ferirebbero uomini che considerano la violenza una dimostrazione di forza.
Dobbiamo colpire dove fa più male, culturalmente non si può giustificare o capire il problema, lo si deve additare ed etichettare in modo che non ci siano dubbi: chi fa violenza sulle donne, lo ribadiamo, è un debole, un infame e un incapace di agire la sua virilità!