C’è una smania, un’urgenza che ti colpisce quando guardi le nuove generazioni. Vogliono tutti essere qualcuno. Non importa chi, purché sia un qualcosa con un contorno netto, un’etichetta lucida, un hashtag che ti incaselli. Influencer, creator, tiktoker, startupper. I social sono il loro Colosseo: si entra, si sventola un contenuto, si aspetta il pollice alzato della folla. I follower sono il nuovo dio pagano, e il loro numero è la misura del tuo valore. Non sei nessuno se non hai un pubblico, non esisti se non c’è un algoritmo a certificarti. Poi c’è chi in teoria si ribella. In teoria. Tipo quegli studenti che quest’anno, all’orale della maturità, hanno detto: “No, grazie, passo”. Niente esame, niente voto, niente inchino al “sistema”. Il tema però è che anche loro, che sputano sul voto, sono figli dello stesso sistema. Sono cresciuti a pane e like, a stories e analytics. Ogni loro gesto, ogni loro pensiero, è stato plasmato dall’idea che ci sia sempre un pubblico a guardarti, a misurarti, a dirti se vali o no. E infatti il loro rifiuto è un post, un gesto performativo per un’audience per nulla immaginaria. Perché il punto è questo: nessuno sfugge alla logica del pubblico. Non i ragazzi che caricano balletti su TikTok, non quelli che boicottano l’esame di Stato. Viviamo in un’epoca in cui ogni respiro è un contenuto, ogni emozione un’occasione per un reel. E in questa gara a chi urla più forte, a chi ha più follower, a chi è più qualcosa, c’è una competizione feroce, un ring invisibile dove ci si pesta senza nemmeno toccarsi. È la dittatura dell’immagine di sé. Ma sotto la patina di filtri e caption motivazionali, c’è una crepa. Ed è una crepa creata anche e forse soprattutto da questo sistema di competizione e ricerca di consenso. Ne esce un dolore emotivo che nessuno confessa, perché ammetterlo significherebbe perdere punti nella classifica della perfezione. Vogliono tutti sembrare forti, inscalfibili mentre la verità ti dice che la forza, quella vera, non è nell’armatura scintillante che ti costruisci per Instagram ma è nel momento in cui ti permetti di crollare. La vulnerabilità non è una resa, è un atto di coraggio. Concedersi il crollo non è solo liberatorio, è il primo passo per ricostruirsi. Non per diventare qualcuno, ma per essere, semplicemente, se stessi. La guarigione autentica non arriva quando ottieni diecimila like o quando rifiuti l’esame per fare il ribelle. Arriva quando ti siedi in silenzio e ti ascolti. Quando smetti di chiederti cosa pensano gli altri e inizi a chiederti cosa vuoi tu. Non è sexy, non fa engagement, non ti dà follower. Ma è l’unico modo per smettere di essere un personaggio e iniziare a essere una persona.

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