LA LEZIONE DI BUTTAFUOCO IN FONDAZIONE MONTE DI PIETA’

Meglio di così non potevano iniziare i “Dialoghi al Monte”, serie di incontri organizzati e voluti dalla Fondazione Monte di Pietà e dal suo presidente Giovanni Diamanti. La serata con Pietrangelo Buttafuoco sarà ricordata in città come pietra miliare nel processo di discussione e crescita progettuale del senso stesso di cultura e di (re)definizione di esso. Buttafuoco è persona e personaggio di difficile contenimento. Fascistissimo per sua autodefinizione, convertito all’Islam (anche se lui preferisce parlare di un ritorno a quello che per lui è un islam siciliano/sareceno) saggista originale, giornalista raffinato, un passato da attivista politico nelle file della destra missina e poi, dopo Fiuggi, in Alleanza Nazionale. Ma Buttafuoco è molto di più della somma delle sue qualità e supposte etichette. Nella splendida cornice della chiesa di San Vincenzo (gremita per l’occasione) c’era più di qualcuno appartenente alla destra cittadina, perché si sa, il richiamo pavloviano dell’ovvio è facile quanto comodo. Ma sarebbe limitante e miserevole ridurre Buttafuoco ad una figura di parte. Anche e soprattutto perché era qui, ospite di Giovanni Diamanti e della Fondazione Monte di Pietà, in quanto presidente della Biennale di Venezia che è una delle fondazioni culturali più importanti del mondo, se non la più importante.

Quello che è andato in scena è stato qualcosa tra una lectio e un accorato comizio d’altri tempi. Con un livello intellettuale per una volta finalmente alto sul serio, senza ammiccamenti, e privo di ambiguità. La conduzione di Diamanti, essenziale nonché necessaria, ha tentato l’arduo compito di “posare a terra” i voli visionari del Buttafuoco e ci è riuscita in pieno. Perché, occorre ammetterlo, veniva da chiedersi di tanto in tanto se il mondo che il Presidente della Biennale descriveva, fosse reale o realizzabile. E allora chiedere con quali soldi, con che risorse pubbliche, con che pubblico, ma in generale in che dimensione sociale si potesse intravedere la strada tracciata, era d’obbligo, e Giovanni Diamanti non ha perso occasioni per permettere al pubblico presente di unire meglio i punti di un disegno solo in apparenza troppo caotico. Ma, se lezione è stata, che insegnamento si è portato a casa alla fine?

Ci sono delle immagini che rimangono più impresse dalla serata. La frase di Gesualdo Bufalino per cui per battere tutte le mafie basta un esercito di mille maestri elementari. Il ricordo di Carmelo Bene che legge Dante dalla Torre degli Asinelli dopo la strage di Bologna perché la cultura, quella alta, è curativa e mai e poi mai avrebbe avuto lo stesso impatto leggere qualcosa di meno assoluto (critica alla diffusione pop della conoscenza). La provincia come luogo da cui ripartire piantando semi che si chiamano teatri, musei, biblioteche. Il benedetto e sacrosanto lavoro degli operatori culturali che deve essere pagato di più. Il fatto che un euro investito in cultura ne genera 3 di indotto. Il richiamo ai privati. Queste forse le cose più facili da ricordare. Ma quello che ha colpito della serata è probabilmente più presente nelle cose che non si sono dette ma sono arrivate forti, chiare e lancinanti lo stesso. E sono gli aspetti che raccontano dello stato in cui versa la cultura in questo paese e del significato che essa può avere ancora e che deve avere ancora.

Nel tempo senza tempo che è il nostro, nel teatro delle ombre che è la Storia, la cultura è la grande attrice dimenticata. Sta lì, coperta di polvere, in fondo al palcoscenico. Si muove, respira, agita un lembo del costume liso, ma nessuno la guarda davvero. È l’ultima a essere pagata, la prima a essere accusata, eppure è quella che regge la scena da millenni. Lo sapevano gli antichi, lo dimenticano i moderni. E noi, uomini del 2025, post-pandemici, post-veri, post-tutto, cosa ne facciamo della cultura? La celebriamo o la crocifiggiamo? Il problema non è solo economico. È etico, è ontologico. Perché nella cultura non c’è solo il bello: c’è il vero. E il vero, nel nostro tempo di narrazioni, disturba. Costa, perché impone domande. E in un’epoca in cui le risposte sono già preconfezionate in forma di algoritmo, chi ha più voglia di domandare? Abbiamo trasformato l’umanesimo in un talk show. Abbiamo sostituito il silenzio contemplativo con la chiacchiera compulsiva. Abbiamo rottamato la cultura, dimenticando che senza cultura si vive, sì, ma si vegeta. Si sopravvive. Non si sogna. E allora che fare? Dobbiamo reimparare ad ascoltare. Rieducarci alla bellezza. Ma anche, e soprattutto, accettare che la cultura costa. Costa fatica, costa tempo, costa soldi. Non può essere gratuita, perché ciò che è gratuito diventa, prima o poi, invisibile. In un’Italia che si dibatte tra crisi e rinascita, tra intelligenza artificiale e ignoranza reale, il compito è uno solo: ridare dignità alla cultura. Significa pagare gli insegnanti come si pagano gli ingegneri. Significa, soprattutto, smettere di considerare la cultura un lusso.

Questo è l’insegnamento di Pietrangelo Buttafuoco e si spera sia questa la direzione della “sua” Biennale di Venezia. In quanto all’uomo, beh, rimane un fiume in piena ostinato ed estroso. Un intellettuale intriso di quel senso del sacro che scorre anche nel suo eloquio, forte del suo antilluminismo alla cui base c’è il rifiuto della ragione, della modernità, del laicismo, della “Società”. Con lui sarebbe bello discutere di questo, di come tra i due estremi (la fiducia cieca nel progresso e il rifiuto reazionario del moderno) esista uno spazio ampio, stratificato e stimolante che parte da Goethe e Novalis, passa per Simone Weil e Ivan Illich e arriva ad Habermas. Insomma, quella terza via, la via della complessità, che rifiuta le semplificazioni tanto dell’utopia razionalista quanto della nostalgia antimoderna. Sarà per un’altra volta. Ieri è bastato e avanzato così.

I “Dialoghi al Monte” proseguiranno con l’obiettivo di portare eccellenze in città e per la città, favorendo scambi e confronti e inserendo Vicenza in circuiti culturali sempre più ampi. Un progetto ambizioso e importante che si inserisce tra i cambi in corso di una città che si vuole ridestare e vuole farlo guardando lontano.

Aprile 2025

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