Si chiamava “Canzone per l’estate” il brano che scrisse Fabrizio De Andrè e che musicò con Francesco De Gregori. Era il 1975, in pieno decennio politico, austero, grigio come l’asfalto. «La canzone – spiegava De André – è l’autocritica di una persona che per motivi forse biologici si sta imborghesendo». Una persona che ha smesso di sognare, di sbagliare anche, che poi in “Amico Fragile” (dallo stesso disco) confesserà invece di essere molto diverso di così. Però l’imborghesimento capita a tutti prima o poi, si deve tenere a bada, altrimenti ti cattura e poi non riesci più a volare.
Con i tuoi entusiasmi lenti precisati da ricordi stagionali
e una bella addormentata che si sveglia a tutto quel che le regali
con il tuo collezionismo
di parole complicate
la tua ultima canzone per l’estate.
Con le tue mani di carta per avvolgere altre mani normali
con l’idiota in giardino ad isolare le tue rose migliori
col tuo freddo di montagna
e il divieto di sudare
e più niente per poterti vergognare.
Com’è che non riesci più a volare?
La canzone per l’estate è quella canzone disimpegnata, leggera leggera, da festine in spiaggia, con tutti che si mettono a ballare. Capita anche oggi. A volte ti trovi tra cinquantenni che si dimenano goffi sulle note di “The Rythm Of The Night” come fossero in un villaggio Valtur e ti senti in imbarazzo. È l’estate, bellezza! Che è sempre uguale a se stessa, sempre frivola e troppo breve, lasciva e malinconica come l’ultimo giorno di pioggia al mare. La musica estiva è un po’ come il cinema di natale: un rito consumistico da commedia tragicomica. Eppure l’estate è anche stagione dei grandi festival musicali, dei concerti negli stadi, ma alla fine ci si ricorda di più di “Vamos a la playa” e di “Dammi tre parole, sole cuore e amore”. Poi arriva settembre e si torna più decentemente attenti ai contenuti, ma neanche sempre.
Musica estiva e letteratura estiva. Sotto l’ombrellone l’italiano medio porta (quando va bene) la “Settimana Enigmistica”, oppure romanzi facili e freschi come un ghiacciolo alla menta. Eppure l’estate è LA stagione. Lo diceva meglio di tutti (come sempre) Ennio Flaiano: “Non c’è che una stagione: l’estate. Tanto bella che le altre le girano attorno. L’autunno la ricorda, l’inverno la invoca, la primavera la invidia e tenta puerilmente di guastarla”. Il problema è che abbiamo derubricato l’estate alla voce: “felicità e/o spensieratezza” e così facendo le abbiamo tolto il lato intimo, che invece è enormemente preponderante. Estate è corpo, calore, sudore, umori, natura, suoni, odori. Estate è poesia.
E allora se sotto l’ombrellone portassimo delle poesie? Ci si accorge sempre poco della poesia, ma che accadrebbe se all’improvviso mancasse? Cosa sarebbe la guerra di Troia senza l’Iliade, senza Ettore e Achille? Ma oggi è difficile intendersi di poesia come un tempo. Prima c’erano tante etichette che, in qualche modo, aiutavano a parlarne mentre oggi l’espressione poetica avviene al di fuori di ogni regola. A cosa serve la poesia? Non serve a niente, perché servire a qualcosa ne limiterebbe la portata e la sublime superfluità. La poesia è un dono e basta. Sta dentro di noi, non sta fuori, in nessuna cosa, è un modo di accostarsi alle cose, non una qualità delle cose, ed è indefinibile. Riflette il mistero del mondo nel mistero delle parole. Viviamo un’età senza più muse e senza Dei nascosti in un bosco o in una grotta, e ciò rende la poesia un artificio, una cosa non spontanea. “Il poeta è un fingitore” scriveva Pessoa. Il dolore che il poeta prova come sentimento spontaneo, per essere veramente comunicato deve essere finto, cioè ricreato artificialmente dall’artificio delle parole e dall’ordine misterioso che lo sorregge. “Non si abita un luogo, si abita una lingua” diceva Canetti, e il linguaggio che è espressione di noi stessi dev’essere salvaguardato dal degrado. E la poesia più di ogni altra cosa restituisce al linguaggio l’emozione della meraviglia di fronte alle cose. La meraviglia di stare al mondo e contemplarlo. Sarebbe davvero bello portassimo un po’ di poesia sotto l’ombrellone. Poi invece ti desti dal sogno e senti in sottofondo la versione jazz lento di “Paranoid” dei Black Sabbath, perché uno dei crimini contro l’umanità è questa moda che va avanti da troppo tempo delle versioni lounge/jazz dei classici del rock, santiddio pietà. Quando c’erano i juke box si stava meglio.
L’estate è quella cosa che “Studio Aperto” ci fa i servizi dicendo che si suda, di bere molto ed evitare di uscire nelle ore più calde. L’unica novità moderna è quella dei ladri che capiscono che hai la casa vuota perché posti cento foto di te in vacanza ogni giorno su instragram. Per il resto siamo sempre quelli della canzone vacanziera, per vedere da lontano gli ombrelloni-oni-oni. Solo che non si può più dire “altissimi negri” quando canti “I Watussi”. Questa è la civiltà che abbiamo ottenuto. Bravi, no?