Durante il lockdown si era creata una sorta di comunità dentro alla comunità. Un numerosissimo
gruppo di persone che rivendicava un diritto che, per loro, gli veniva tolto dalle limitazioni: il diritto di correre. Sono stati irrisi, considerati fanatici o addirittura accusati di scarsa comprensione della drammaticità del momento. Pochi però, tra i non corridori, hanno considerato un aspetto: quella gente doveva correre! Per un runner smettere di correre equivale a modificare seriamente una serie di abitudini fisiche, mentali e biologiche che la corsa ti dà. Correre non è solo un modo per fare sport e tenersi in forma. Correre è una sorta di droga e quindi ne hai bisogno. Noi sportivi da tavola comprendiamo a fatica che si possa soffrire per NON fare un’ora sudando su e giù per le strade o i sentieri ogni giorno. Ci sembrano dei malati o dei fanatici. Ma se provassimo a capire meglio ci renderemmo conto che tutto ha un senso, e pure importante, e che, soprattutto, noi possiamo tranquillamente continuare con la nostra vita di carboidrati e barbera e loro con quella di acqua e maratone, andando d’amore e d’accordo.
All’inizio si chiamava jogging. Parola che deriva dal verbo inglese to jog (andare avanti a balzi) e da qualche decennio significa, in breve, correre a passo lento o medio. Il jogging è, per essere più tecnici, un esercizio aerobico, di quelli che non dovrebbero far venire il fiatone: una distinzione non ufficiale ma piuttosto condivisa è che se si corre a un ritmo superiore ai sei minuti per chilometro si sta facendo jogging, se si va più veloci si sta correndo. Fare jogging diventò popolare negli anni Sessanta per merito di Bill Bowerman, che al tempo allenava la squadra di atletica leggera dell’Università dell’Oregon.
Prima di Bowerman, se qualcuno vedeva uno correre in un parco, lo prendeva per matto o per qualcuno che stesse scappando. Non c’era alternativa.
Nel 1968 il New York Times pubblicò un articolo su quegli strambi individui che correvano nel loro tempo libero e nello stesso anno il Chicago Tribune dedicò un’intera pagina a un articolo intitolato “Jogging: il nuovo modo di stare in forma“. Iniziava così: “Ogni giorno alle 6.30 del mattino John Rieben, un dirigente di 33 anni, si mette un paio di sneakers, indossa un po’ di vecchi vestiti, sguscia fuori casa, e poi si mette
a correre per Lincoln Park. Quando raggiunge il suo obiettivo si gira e corre fino a casa. Lo sta facendo da cinque mesi, con gran divertimento di amici e vicini, che vedono come una cosa folle il fatto che un adulto si metta a correre, e vedono questo suo rituale come una stupida perdita di tempo”.
Oggi, dopo 54 anni da quell’articolo, il mondo della corsa amatoriale, e non, è parte integrante della nostra società. I presidenti si alzano all’alba e corrono (Clinton ne fece un’estetica personale), le firme di moda più importanti hanno tutte una linea per il running, la tecnologia di telefoni o orologi fa a gara per darti più info su battiti, passi, chilometri. Dal jogging se ne è fatta di strada, letteralmente. Ma questa nostra storia racconta una particolare forma di corsa. Una specie di mondo speciale che magari nasce dagli stessi motivi che spinsero Bowerman, ma termina con significati decisamente più ampi. Un mondo fatto di natura, di scoperta del territorio, di condivisione, di unità e non ultimo anche di divulgazione
culturale e turistica. Parliamo di “Ultrabericus”.
“Io correvo – ci racconta Enrico Pollini, che di Ultrabericus è anima, direttore di gara e principale organizzatore – e la mia era la storia classica. Hai 35 anni, un po’ di panza, ti separi, e ti dici “beh insomma mi metto a correre” che è la roba più semplice di ‘sto mondo. Il primo pensiero è la maratona. Se hai un immaginario è quello. La mia prima maratona è del 2001. Dal giorno zero (dalla prima corsa) alla maratona, ci ho messo sei mesi. Il fatto è che l’endorfina è una droga. Il banale correre ti porta a sentire dipendenza. Stimola l’ormone della felicità. Guardi le cose con un certo distacco. Insomma, stai meglio!”
Il mondo della maratona è basato sui quei 42 km su strada: è una prova senza appello, la tecnica vuole tu conosca il tuo ritmo, la tua capacità e velocità, per stare concentrato per 42mila passi senza andare in crisi e provare a percorrerli nel miglior tempo possibile, indifferentemente da quello che ti circonda.
“Alla mia prima volta – prosegue Pollini – riesco a rimanere sotto alle 4 ore. Ero decisamente felice. Quindi ne provo un’altra. E succede che quella dopo la fai in dieci minuti di meno e così via con quella dopo ancora. Alla fine ne ho fatte 5 di maratone stradali. Poi però arrivi a farla in 3 ore e mezza e capisci che hai
raggiunto il tuo limite fisico. A quel punto, siccome non puoi raccontare i tuoi record agli amici al bar e allenarsi sull’asfalto è pesante, scopri che correre in natura è molto più divertente. Senza l’assillo del cronometro perché non hai una base misurata di confronto. E così ti ritrovi ad allungare le distanze”.
Siamo nel 2002/2003. Nasce un gruppo informale, senza statuti, che si iscrive alle gare col nome “Polisportiva Torresselle “. L’obbiettivo fissato era quello della maratona alpina di Schio: 42 km e 3000 metri di dislivello. Per prepararsi all’evento, il gruppo iniziò ad allenarsi sui Berici e fu così che a Pollini e
compagnia iniziò a frullare per la testa l’idea di istituire una corsa nei colli. Il tratto distintivo che differenzia una gara del genere da una corsa normale, riportato anche nel regolamento del “Trail Running”, è che non c’è una base misurata (il tempo che tu fai a Tokyo o New York o a Roma è sempre preso sui 42 km mentre nel trail running ogni percorso è diverso dall’altro quindi è impossibile
definire un parametro oggettivo) e che il tracciato di una gara deve includere la
scoperta di un territorio. “Questo aspetto esplorativo – dice Enrico – mi ha portato in ogni anfratto e ogni
stroso dei Berici, che sono un’ambiente veramente incredibile. Non presentano la difficoltà della montagna e per questo ne sono una validissima alternativa in primavera ed estate. Sono molto antropizzati, ma hanno moltissimi angoli che ti catapultano in un attimo nel nulla, con caprioli e volpi.
In queste esplorazioni, iniziai a ricamare un percorso che evitasse le aree abitate e costruite (l’asfalto, fondamentalmente). I Berici non sono facili da esplorare. Orientarsi è un casino. Ci vuole tanta pazienza. Con la piccola community che si era costruita abbiamo maturato l’idea di partire dal cuore di Vicenza, fare tutto il giro dei colli e tornare in piazza. Questo accadeva nel 2009. Nel 2010, quindici di
noi, con un auto di assistenza, abbiamo fatto l’edizione zero. Non era una gara ma era una prova potenziale del percorso. Posizionata in calendario al sabato precedente la Stra Vicenza, per creare una sorta di collaborazione e dialogo. Facebook era appena nato ma c’era un forum che si chiamava “spirito trail” dove bene o male ci si trovava. Da questa base abbiamo organizzato la prima edizione
nel 2011. Partenza in piazza ma arrivo in Campo Marzo (su richiesta dell’amministrazione). Prima edizione con 450 iscritti, chiusa in sold out. Da quel momento, mettendo sempre un limite di partecipanti e raggiungendo sempre il sold out (perché su quel numero poi misuri tutto il resto) siamo cresciuti fino a 600 nel 2012, 800 nel 2013 e 1000 nel 2014. Percorso classico di 65 km con 2500 metri di dislivello. Quella del 2020 sarebbe dovuta essere la decima edizione, e per l’occasione ci siamo inventati la formula di 100 km e 4000 metri di dislivello. Eravamo già pronti ma poi è arrivato quel che è arrivato. Nel 2021 siamo riusciti a realizzarla in versione ridotta e con tutte le limitazioni covid del caso (in Campo Marzo e non in piazza, per evitare assembramenti). Quest’anno tutto è tornato alla normalità: 1400 iscritti di cui 400 dalla provincia di Vicenza, 500 dal Veneto, e il resto da tutta Italia più una ventina di stranieri. Tasso di accompagnatori che balla da 1.2 a 1.5 a persona. Quindi alla fine muovi 2.500 persone in un weekend. Tutto in collaborazione col Comune ma senza chiedere un euro, solo transenne e vigili urbani”.
Ultrabericus in dieci anni è diventata una delle principali manifestazioni vicentine, e non stiamo parlando solo dell’ambito sportivo. Un numero così importante di partecipanti e di ospiti porta sì un indotto alla città, ma permette anche di usare la gara come vero biglietto da visita per i tantissimi che vengono da fuori. I Berici e il loro fascino unico, i luoghi turistici e le ville palladiane, l’ospitalità e l’umanità degli organizzatori. Ultrabericus è una festa e l’organizzazione è attenta ai minimi particolari. Ci si iscrive online, pagando la quota, e in cambio si ricevono il percorso tracciato, i gadget, l’assistenza, il ristoro lungo la gara, i servizi spogliatoio eccetera. Già, il tracciato. Dove si svolge di preciso la gara?
“Innanzitutto c’è da dire che negli anni dispari la si fa in senso anti orario, mentre nei pari in senso orario. Quest’anno, che era pari, il percorso è stato: Piazza dei Signori, Corso Palladio, Campo Marzo, Monte Berico, Rotonda, Villa Margherita, Fontega (deposito munizioni), si risale al Michelangelo, giù a Torri di Arcugnano, Pianezze, Villabalzana, torretta di Nanto, e poi rimanendo alti sul ciglio fino a San
Donato a Villaga (ristoro principale a metà gara e cambio della staffetta). Poi a Pozzolo, giù a Calto, Pederiva, su a San Gottardo, Perarolo, Spianzana, Arcugnano, passi sopra all’autostrada e poi giù a Monte, scalette, Santa Caterina, busa San Michele e infine Piazza dei Signori”,
Il record finora è di 5 ore e 25. Gli ultimi arrivano verso le 23 (si parte alle 10 del mattino). Ci sono 11 senatori che le hanno fatte tutte. Ha sempre vinto un uomo, ma sono moltissime le donne che partecipano. Il record femminile è di 6 ore e 15 e in quell’occasione la donna è arrivata nei primi 10.
Ad oggi, è la terza gara d’italia per numero di partecipanti. Quello che fa dell’Ultrabericus qualcosa di speciale è lo spirito. Nel giorno di gara ci sono tra i 400 e i 450 volontari. Al di là di Croce Rossa e Soccorso Alpino ci sono varie associazioni come Fidas o le associazioni sportive e a tutte viene dato un piccolo contributo che l’ente che poi investe nel volontariato. In questo modo tutti i volontari lavorano per il bene del gruppo. Se la protezione civile deve cambiare le gomme al furgone, tutti lavorano meglio perché così lo possono fare. I radioamatori, negli anni, hanno comprato un fuoristrada anche grazie all’Ultrabericus. Di fatto è come se ogni anno la gara fosse un’entrata di beneficenza per la
protezione civile.
“Alla fine facciamo una cena con tutti i volontari e si fa gran festa. I primi anni ogni gruppo arrivava e stava per i fatti suoi, ma col tempo si è sviluppato questo senso di appartenenza ad un progetto e ho iniziato a vedere che si mescolano tra loro. Un risvolto umano che i concorrenti percepiscono e quindi tornano anche perché trovano gente sempre col sorriso e sempre ben disposta. Ti racconto questa: in
senso anti orario c’è una discesa da Villabalzana al lago e in fondo, per sicurezza visto che è piuttosto ripida, mettiamo due alpini a tener d’occhio la situazione. Un anno vedo, all’arrivo in piazza, che una ragazza ha un bucaneve in mano, un’altra ce ne ha uno sull’orecchio, un’altra con uno sullo zaino… Era successo che l’alpino a tutte le tose dava un fiore dal campo di bucaneve lì a fianco.”