FREAK OF NATURE. LA FORZA DELLA NATURA CHE SVEGLIA LE COSCIENZE.

Quando un avvenimento si derubrica alla voce “provocazione”, è molto probabile lo si faccia perché non si hanno gli strumenti per leggerlo e codificarlo. Una provocazione è un atto che dovrebbe portare alla riflessione, alla critica o all’autocritica. Uno schiaffo metaforico che per sua natura ha come conseguenza una reazione. Anche scomposta. Però qui non stiamo parlando di provocazioni.

Quando l’arte fa rumore e finisce per essere argomento di discussione politica e tema del giorno nei bar dei paesi, è sicuro che in qualche modo abbia colpito nel segno, abbia svegliato chi dorme, sia stato quello che la moderna civiltà del mercato definisce un “successo”. Però qui non stiamo parlando di meccanismi di mercato o di successo a tutti i costi.

La faccenda si complica. “Freak of Nature”, lo dice la parola stessa, è corpo alieno e libero, che si muove nel territorio adattandosi, e non ha l’imperativo classico della provocazione che nasconde sempre sottili sfumature antagoniste e proto-violente e tantomeno segue i dettami della massificazione commerciale che è il pollice verso o alto nell’impero contemporaneo sorretto dal denaro. No. Freak of Nature innanzitutto è un modo di vedere le cose. E’ un piccolo mondo indipendente e mobile che ha una sua coerenza totale, data da una filosofia estetica, di azione, e di intransigente valore assoluto dato alla libertà.

Non giudicheremo il suo lavoro nei termini stantii della critica artistica attuale. Non lo faremo semplicemente perché qui siamo di fronte a qualcosa che supera il concettuale e diventa parte integrante dello spazio chiamato tessuto di relazioni. Il modo di pensare, agire e chiudere tutto in un microcosmo di princìpi che appartiene a Freak of Nature, è il suo stesso DNA, è la materia del suo esserci, dentro a questi tempi sempre più refrattari alla speculazione culturale, sociale e del senso stesso di comunità.

Freak of Nature è come un albero, che sta lì, e per il suo fatto di essere un albero non sta portando una morale, non ha significanti da decifrare, è un albero, nel suo posto, cresciuto secondo la sua natura. Siamo noi che lo osserviamo il vero punto cruciale di questa rappresentazione.

Quattro anni fa, Caterina Soprana, attuale Presidente della commissione cultura al Comune di Vicenza, iniziò un lavoro certosino di censimento delle vetrine dei negozi ormai abbandonati, o chiusi o in palese stato di degrado. Lo fece attraverso la sua macchina fotografica e il risultato, alla fine, fu una mostra che, usando le sue parole, doveva esibire il “progressivo morire per tanti spazi che furono un tempo il centro dell’attività umana e che oggi giacciono immobili e stanchi”.

Seppur non espressamente era chiaramente anche un lavoro politico, nel senso di un lavoro per la polis e che avrebbe dovuto, in tempo per altro di campagna elettorale, anche far riflettere sul modello di città e di uso dei locali e dei palazzi, di quello che significa condividere i luoghi del territorio.

Che oggi la situazione non sia cambiata ma sia pure peggiorata non è certo una colpa politica. Il presente è permeato di crisi e di svuotamento dei centri storici, il covid poi è uno scossone enorme a tal riguardo. Ma allora perché proprio certa politica (e non stiamo parlando del consigliere Soprana che abbiamo usato qui solo come esempio) quando la sottolineatura del disagio non arriva dai soliti canali liturgici propagandistici, non capisce il senso delle azioni e le osteggia?

Foto: Alessandro Tich

La faccenda la conoscete più o meno tutti. Una mattina ci si sveglia e si trovano decine e decine di vetrine del centro dipinte con immagini raffiguranti verdi bambù. Vetrine di negozi o ambienti chiusi, che fan mostra di città che soffrono, che dimenticano socialità passate, lavori che scompaiono, affitti insensatamente alti in controtendenza col momento di vacche magrissime, scelte commerciali miopi, brutture architettoniche, degrado insomma. E disagio conseguente. E su questo degrado e su questo disagio, lei colora la natura. Dei solari bambù che un po’ d’acqua poi possono facilmente eliminare ma che intanto fanno da monito per chi li vede: attenzione tutti quanti, il nostro modello pare proprio non stia più funzionando. Ma il colpo di spugna non avviene. Cresce la protesta. Si parla di “imbrattamento”. Ovviamente a sproposito. Motivo? Beh, far notare che le cose non vanno bene non viene preso come stimolo per una riflessione, bensì come un attacco e quindi agli attacchi si risponde caoticamente, considerandoli mirati chirurgicamente per colpire questo o quel politico. Ma Freak of Nature è altra cosa, e questo ancora troppi non lo capiscono. Freak of Nature va oltre le beghe misere delle parti, delle posizioni di potere da difendere. Freak of Nature è più in alto, là dove cresce spontanea la natura, matrigna crudele per il triste recanatese, tema dei temi oggi come oggi. Perché è la natura che ci insegna la via, non i mercati dell’effimera carta straccia.

Quest’artista è una donna dall’energia debordante. Ti investe come un ciclone e ne rimani colpito. Ha una forza interna talmente veemente che si muove come se quel che fa fosse necessario come respirare. Controlla tutto il suo operato. Padrona di se stessa e capace di gestione della densità del suo pensiero che a volte pare ribelle ma che invece segue una linea di abbagliante logicità. Parlare con lei è accettare che il fiume in piena ti arrivi addosso. Ma siamo attrezzati, ci spaventano le acque chete, non di certo le persone vive, così vive.

“La mia è una questione caratteriale, penso che tutto ciò che faccio dimostri me per come sono. Ad esempio, sulle mie “performances”, o come diavolo vuoi chiamarle, non faccio mai delle previsioni. Non mi chiedo più nemmeno cosa penserà la gente. Mi dicono che non è arte: nel 2022, gente che non comprende la forma d’arte più contemporanea che abbiamo come la street art. L’assessore alla cultura di Bassano che ne parla come fumo negli occhi e fenomeno passeggero. Ti rendi conto? Perché al di là di gente come Banksy che conoscono tutti, l’arte urbana ormai ha più di 40 anni. Altro che fenomeno passeggero”.

Cosa sia arte e cosa sia un’artista, in questo caso specifico, non è comunque discorso banale. Freak of Nature è un caso singolare perché, di fatto, rappresenta solo se stessa. Persona tra le persone. Con i pregi, i difetti, le debolezze, le miserie e i colpi di genio. Che realizza opere e performa per bisogno interiore e per un collegamento ombelicale con la terra, con questo pianeta malato, che deve essere ascoltato, proprio come si fa con i pazienti ricoverati, per capire come intervenire, per dargli sollievo, per farlo tornare al suo posto. L’arte di Freak of Nature risveglia coscienze, pone domande, mette in discussione e lo fa col simbolo più innocuo, più umano, più metaforicamente perfetto.

“Il primo approccio mi viene dal mio vivere la città e da quello che io chiamo il mio perbenismo. Mi sento pop in quanto “popolare”, in quanto parte del popolo. Ad esempio, ho scoperto che esisteva Borgo Berga da sola, e non sapevo nulla del perché fosse stato fatto lì e cosa ci fosse o non ci fosse sotto. Sapevo solo, istintivamente, che era un abominio. Così nel 2010 ho coperto 4 palazzi su quel sito. L’opera era alta 15 e lunga 102 metri, in tessuto. Mi viene così: quando non conosco una città prima o poi mi ci immergo coprendo una parete, uno spazio, una dimensione in generale, e poi finisco per lavorare per anni in quella città come feci a Padova con “Onda Palace”, ecomostro alto 18 piani”.

“Fin da quand’ero piccola iniziai a disegnare bambù. Era qualcosa di innato che poi però divenne un simbolo. Esistono più di mille specie di bambù. Sono fra le piante più resistenti al tempo, all’attacco di malattia e alla compressione meccanica presenti sulla terra. Sono sempreverdi. Hanno una straordinaria velocità di crescita. Fioriscono ogni 50 anni circa. Sono in grado di contrastare l’inquinamento. Mentre studiavo Borgo Berga pensavo al fatto che il bambù cresce di un metro all’anno e quindi, essendo durati 15 anni i lavori, l’altezza di 15 metri non era altro che la rappresentazione della natura come ci fosse sempre realmente stata. E questo l’ho poi sempre adattato in altri luoghi come con “Onda Palace” in cui oltre ai bambù, nell’enorme telo che copriva l’edificio avevo disegnato anche dei fiori blu che rappresentavano l’acqua. Oppure con il ponte di Bassano in cui c’è sempre bambù ma anche la mia rivisitazione della bandiera visto che vi erano solo vecchie bandiere sdrucite e io volevo dire “perché non ci curiamo delle nostre bandiere?”. Il vero successo per me è quando poi vengo a sapere che ci sono persone che si fanno il tour delle 50 vetrine che tu hai dipinto (50 a Bassano, 90 a Vicenza, 60 a Belluno) come in un percorso di vera esperienza conoscitiva del territorio che ci circonda. Allora lì capisco che sono arrivata a qualcosa. Io tengo moltissimo sia a Vicenza che a Bassano, ci ho vissuto e lasciato un grande pezzo di cuore”.

Un vandalo imbrattatore ve lo immaginate così? Così attento alle emozioni, così devoto all’ispirazione, così capace soprattutto di fare della sua arte il suo sostentamento economico oltre che il suo mondo emotivo? Una persona che si è costruita l’esistenza su misura. Portando inoltre un messaggio di speranza e di attenzione al prossimo. Se qualcosa ha imbrattato, è solo il senso ottuso della negazione dell’evidenza.

“Le nostre città sono governate da gente che va e viene in base alla giunta. Ad ogni cambiamento muta anche lo stato d’animo del territorio. La cultura non è quasi mai in mano a persone di cultura. Che poi non si capisce per chi parlino, per chi stiano lavorando. Padova oggi è la piccola capitale della street art. La biennale a cui ho partecipato aveva come tema la “rinascita” e io ho fatto un pezzo che non è stato un granché considerato dai curatori. Si chiamava “Natura contro natura” con foglie di potus (pianta infestante) e il simbolo del virus. Di norma però non partecipo ai festival perché solitamente andarci significa sentirsi dire “ti dico io dove e quando fare quello che vuoi fare “ che è l’esatto opposto di come lavoro io. Credo che istituzionalizzare la street art sia sempre stato un problema. Una cosa che non avevo considerato e mi porterà a fare delle performances più impegnate è il tema della mancanza di senso di libertà di parola e di espressione. Persone che stimo molto ora stanno cadendo nella trappola di “chi non la pensa come me è un coglione”. Due cose mi hanno molto deluso negli anni. La prima è che in alcune circostanze sono stati proprio dei colleghi a dire ai politici di turno di colpirmi. La seconda è che quelli che in teoria dovrebbero capirmi mi attaccano perché dicono che mi faccio aiutare nel realizzare le mie azioni e che quindi non sono io ma un collettivo artistico. In realtà, a darmi una mano fisicamente vengono avvocati, tatuatori, sacerdoti, agricoltori, chef. Coinvolgo persone di tutte le età e quasi sempre sono i giovani che non se la sentono perché hanno paura e credono che certe cose “non si possano fare”. La colpa è della cultura della proibizione. C’è paura di rischiare, di uscire dal gregge. E poi, posso dirlo? Non ne posso più di sentir parlare di imbrattamento!”

Le definizioni sono limitanti e sovente pure fuorvianti ma dopo aver scritto “street art” una decina di volte mi accorgo che l’espressione più calzante per Freak of Nature è “LAND ART” (arte del territorio) o arte urbana, perché lei poco o nulla ha a che spartire con gli steet artists classici. Neanche e soprattutto dal punto di vista, diciamo, “commerciale”

“Io sono atipica rispetto allo street artist medio. Io non ho una crew, non vengo da quel mondo, non che non mi attragga, è proprio che sono un’altra cosa. Quindi non conosco il loro segreto. So che loro vendono idee a chi le sa gestire meglio mentre io voglio fare quello che voglio e come voglio. Per me è un lavoro. Chiaro che la performance, volendo, si può anche vendere. Ma quel che faccio io va oltre. Di certo non mi pago le bollette dipingendo vetrine, anzi, mi arrivano multe! Che poi di regola non son nemmeno pertinenti”,

Freak of Nature è un mondo a se. Lo si è già detto prima. Immagini, tessuti, dipinti, oggettistica, installazioni, coreografie. Possederne un pezzo equivale ad entrare dentro la sua filosofia. “Nicola Bertoldo è stato il primo gallerista che ha creduto in me. La zona di confort della street art io l’ho evitata, sono indipendente e vedo gli altri come imprigionati. Io son mossa dal mio senso civico, di rispetto e di pulizia e di ordine. Mi indigno magari poi per stupidaggini perché son fatta così: è il mio percorso personale. In me non c’è critica, c’è solo stupore di fronte al declino. Mi sento in dovere morale di fare qualcosa. Faccio parte del popolo e anche se non guardo Maria de Filippi, sono come loro, mi sento come loro. Quel che mi ammazza moralmente è che in questo momento il modello che passa è essere ricchi e vincenti. Io sono una sfigata col moroso che mi ha tradito, la mia opinione non conta nulla nella mia famiglia però sono una persona felice”.

Foto: Tiziana Orru (https://www.tizianaorru.com/sito/dt_gallery/freaks-of-nature-artista-federica-agnoletto/)

Un vulcano la cui lava ti accarezza come una doccia calda. Questo è Freak of Nature. Un’incontinente emotiva. Una presenza nei nostri villaggi post-moderni che è necessaria, perché qualcuno deve pur dircelo e ripetercelo che stiamo allegramente festeggiando sul Titanic, in rotta verso l’inesorabile iceberg.

Scenografia per il teatro Astra di Vicenza

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