La cancel culture si è capito abiti ormai ogni polo politico e ideologico. Si rimuovono nomi, simboli, passato e tradizione. Dal finale della Carmen al nome del bombardiere di Hiroshima. Un delirio politicamente corretto che in questi anni ha portato anche a mettere in discussione pure la grande eredità della letteratura russa. Sono stati boicottati seminari su Dostojevsky come fosse un bardo putiniano. Ora che Putin fa più simpatia magari si cambierebbe idea. Ma rimane il fatto che l’atteggiamento distorto per cui si confonde una politica con un popolo non è nuovo ed è subdolamente pervasivo. La Russia poi ha una storia che parla di oltre 100 anni di dittatura tra il regime comunista prima e quello putiniano ora e più di un sopracciò benpensante ha teorizzato che quel che viene da quelle lande debba essere soppesato al netto della matrice politica di quel sterminato paese. Quindi Majakovsky, Shostakovich, Pasternak e molti altri andrebbero capiti come figli della Russia comunista o come artisti tout court? E quanto di propaganda c’è nelle opere di Eisenstein per poterle apprezzare a prescindere? Domande capziose che hanno di fatto immiserito il dibattito. Quando parliamo di Russia, parliamo (anche) di uno dei popoli che ha dato di più alla storia dell’arte, della letteratura, del cinema e della musica in ogni tempo. E in questi sciagurati giorni, andare a riprendersi in mano i classici serve per entrare di più nei sentimenti di quel popolo.

L’occasione di assistere ad una pièce (in realtà tre atti unici) di Anton Čechov, era quindi perfetta per immergersi in quell’ironico fatalismo, in quella decadente compostezza, in quel formalismo popolano, che è tipico del grande e inarrivabile periodo russo di fine ottocento. Il grande commediografo scrisse opere che sono una pietra miliare della drammaturgia di tutti i tempi. Se le più note sono sicuramente “Le tre sorelle”, “Zio Vanja” o “Il Giardino dei Ciliegi”, quelle andate in programma giovedì scorso 6 marzo al Teatro Civico di Schio sono tra le più divertenti e “classiche” in assoluto. La regia di Peter Stein poi è il grande valore aggiunto. Il regista tedesco ha unito i tre atti unici scritti tra il 1884 e il 1891, in un lungo e attento lavoro svolto dallo stesso Stein con Carlo Bellamio. In scena Maddalena Crippa, Alessandro Sampaoli e Sergio Basile ne L’Orso, mentre Gianluigi Fogacci è l’unico interprete de I Danni del tabacco (il vertice assoluto della serata) e troviamo Alessandro Averone, Sergio Basile, Emilia Scatigno ne La domanda di matrimonio.

Come in ogni classico russo del tempo, e come soprattutto accade in Čechov, la comicità, l’esasperazione e gli eccessi di crudeltà, sono sempre accompagnati da un sottofondo realistico e psicologicamente giustificato. E’ la Russia povera ma distinta, conservatrice e cattolica ma piena di debiti perennemente. Che ha rituali salottieri aristocratici ma giusto due abiti per cambiarsi il dì di festa. E che esagera ed esaspera ogni emozione e ogni relazione, ottenendo di per contro un surreale e grottesco effetto comico. Gianluigi Fogacci in questo è stato perfetto ed esilarante nel ruolo del marito succube e frustrato che alla fine non riesce nemmeno a portare a termine né la sua lezione sui danni del tabacco né tantomeno il suo sfogo contro la moglie soverchiante. In cartellone spunta il nome di Maddalena Crippa che interpreta ne “L’orso” Elena Ivanovna Popova, una vedova inconsolabile che ha giurato, dopo la morte del marito, di non uscire più di casa e di non frequentare più alcun uomo. All’arrivo di un ufficiale che vuole riscuotere delle cambiali tutto degenera in un farsesco duello. Si ride e ci si immagina come fosse quella Russia, quanto distante fosse dalla miseria e quanto vicino alla nobiltà. Era la Russia degli Zar, la grande madre Russia. Che ha forgiato tra i più grandi geni degli ultimi 150 anni. Un motivo, oltre alla politica che ci angoscia, deve pur esserci, e queste serate in fondo servono anche ad andare a cercarlo.