STEFANO BOLLANI A VICENZA: UNA SERATA DI GIOIA

Vicenza Jazz 2025 ha avuto un prologo eccezionale per tempi (tre mesi prima dell’inizio) e valore artistico. Ma era un’occasione da non farsi scappare, perché come dice il direttore artistico Riccardo Brazzale: “una serata con Bollani è sempre qualcosa che puoi vivere solo con lui”. Un teatro comunale strapieno, con gente in lista d’attesa, attende l’ingresso in scena del pianista che da anni ammalia e appassiona anche (e forse soprattutto visto l’audience) un pubblico eterogeneo, laterale ai generi, curioso oltre che appassionato. Un pubblico che non va a sentire il jazz ma va a “sentire Bollani”, e a vedere Bollani aggiungiamo. E lui, saltimbanco geniale, atleta della tastiera, funambolo dell’iperbole pianistica, ripaga questa attesa con un’infaticabile dedizione e una passione stupefacente.

foto: Giorgio Bulgarelli

In programma è prevista un’ora e mezza di concerto senza intervallo, alla fine saranno due ore e oltre ma sarebbe potuto durare anche di più. La prima parte è dedicata a una serie di “preludi” composti dall’artista di origine lombardo/veneta (la madre è di Rovigo) ma toscano di adozione. Spiega al pubblico il senso del preludio in musica, dice che non si deve applaudire tra un brano e l’altro e attendere la fine dell’opera, insomma fa il prof. giovane di fronte a studenti adulti ma poco avvezzi alla classica. Che poi classica invero non è. Nella mezzora di musica di questa sezione sentiamo dapprima influssi schumaniani, più di un rimando alle “canzoni” del mai troppo lodato Federico Mompou, e poi via via sempre più Gershwin e poi l’amato Brasile e un jazz sempre meno truccato d’altro.

La seconda parte, invece, è una vertigine. Sullo sgabello del piano compare l’istrione. Un Liszt in scarpe da ginnastica. Un ottovolante. Un capogiro di pura gioia. Il suo è quasi un atto fisico, qualcosa di sportivo. Non riesci ad immaginarlo senza che le sue dita finiscano su un pianoforte, parafrasando De Andrè. Inizia con un divertissement saltellante che titola (come fanno i jazzisti che danno titoli assurdi, dice) “la Marianna la va in campagna” e si capisce che la musica è cambiata, in senso letterale, dal primo tempo. Già diversi anni fa lo chiamavano il “Chick Corea italiano” e se parliamo di tecnica non sembri una bestemmia dire che il livello è quasi più alto. Dal punto di vista compositivo non si può dire altrettanto visto che l’ispirazione non è sempre felice, ma la grande intelligenza di Bollani risiede nell’aver scelto di non diventare un’antagonista di Giovanni Allevi e di andare saggiamente per strade diverse, dove il jazz incontra il pop, la classica, la bossanova, la canzone italiana e americana e il rock. E gli si perdonano collaborazioni come quella con Jovanotti, perché tanto poi lui suona allo stesso modo e con la stessa magia con Bill Frisell, Caetano Veloso, Paolo Fresu e molti altri giganti.

Si diceva del rock. Ad un tratto spiega che c’è una storica rock band che lui ama particolarmente e si tratta dei King Crimson. Il gusto di Bollani qui esce nella sua particolare propensione all’arrangiamento e all’originalità. Se esiste una sola band rock che si può chiamare avanguardistica e tecnica allo stesso tempo quelli sono i King Crimson, vero culto assoluto. E dal loro repertorio Bollani sceglie “Frame By Frame” dal capolavoro “Discipline” del 1981, album in cui la new wave incontrava il minimalismo di Steve Reich, il buddismo zen e la paranoia dell’uomo moderno. Il moto perpetuo di Robert Fripp viene ripreso dalla tastiera del piano di Bollani in maniera incredibilmente coerente con l’originale, lasciando spazio per le doverose variazioni. Un trionfo.

Quel che segue è una discesa di sorrisi e calore verso un finale che vorresti non arrivasse mai. Racconta l’origine de “A Banda” di Chico Buarque che da noi portò al successo Mina e cala il teatro in quella malinconia struggente e al contempo vitale che solo certa musica brasiliana a volte possiede. Il medley finale è un gioco con il pubblico. In sala si risponde alla richiesta: “cose volete vi suoni e inserisca poi in un unico brano?”. Arriva di tutto. E lui tutto raccoglie. Mette insieme la sigla di Heidi, Over the rainbow, Mi ritorni in mente, Obabaluuba, il tema di Profondo Rosso (che all’inizio confonde con l’Esorcista ma poi corregge all’istante dando l’ennesima prova di capacità d’ascolto e improvvisazione fuori dal comune) e il tormentone Ghostbuster che fa cantare ai 900 che riempiono la sala. Poi torna per l’ultimissimo bis e l’ultimo abbraccio ed esegue un altro medley, questa volta comprendente tutti i temi di “8 & 1/2” del genio assoluto di Nino Rota, chiudendo col sapore carnascialesco di quella passerella finale felliniana in cui tutto quello che abbiamo e tutto quello che siamo sfila senza chiederci se ha senso, se è giusto e se è da accettare o meno. Perché il senso della musica secondo Bollani è proprio questo: non c’è un alto e un basso, non c’è colto e popolare, c’è la musica. E noi, lì, a sorridere.

Aprile 2025

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