VAIA. LA TEMPESTA NELLA MEMORIA

Tra il 26 e il 29 ottobre 2018, venti fortissimi, piogge torrenziali e fenomeni atmosferici violenti hanno causato gravissimi danni ambientali, economici e sociali nelle montagne del nord est Italia. Quel disastro prese il nome di Vaia. La struttura era quella degli uragani tropicali. Colpì soprattutto le province di Belluno e Trento, ma ci furono danni anche in quelle di Vicenza, Verona, Brescia, Bolzano e Udine. Dei motivi climatici e dei danni pratici, se ne è parlato e se ne parlerà ancora per molti anni. Ma ci sono moltissime vicende umane dentro e fuori la tragedia, che raccontano di tradizioni e paesaggi mutati, di perdite materiali e immateriali, di dolori profondi e nervi scoperti per sempre. Nel libro “Vaia. La tempesta nella memoria” si va dentro a queste storie. Oltre ai danni. Oltre al fatto che in quei giorni venne spazzata via una superficie boschiva pari a 70.000 campi da calcio, abbattendo oltre 15 milioni di alberi. Oltre alle case crollate, le strade, i ponti, i tralicci, i lampioni e le antenne. Oltre all’isolamento delle persone, senza elettricità e senza possibilità di essere raggiunti in diversi paesi. Un lavoro d’equipe composta dalla ricercatrice Iolanda Da Deppo, dall’antropologa Daniela Perco e dal sociologo e antropologo visuale e documentarista Michele Trentini.

Questi ultimi ce ne hanno parlato mercoledì scorso alla Biblioteca La Vigna.

Un lavoro particolare e diverso dagli altri trattati sulla tempesta, realizzato per altro durante il covid. Un’opera che indaga tra gli abitanti del posto, tra la gente che l’ha vissuto sulla propria pelle, e sviscera quale è stata la loro percezione del disastro. Daniela Perco per anni ha diretto il Museo Etnografico Dolomiti e il progetto di questo libro è partito proprio da lì, sulla base di una legge regionale che permetteva di usare i fondi avanzati dall’anniversario della grande guerra; dopo Vaia, si decise per un nuovo bando unendo i luoghi bellici e quelli colpiti dalla tempesta. La cosa che subito appare chiara è che la montagna è fatta di luoghi diversissimi. Val Visdende, ad esempio, è un posto meraviglioso, curato da secoli, come tanti nostri boschi che, ricordiamolo, sono tutti coltivati. Val Visdende aveva boschi di solo abete rosso con alberi maestosi, alcuni dei quali centenari. C’era un sistema di gestione del tutto particolare che si basava sulle “regole”: secolari istituzioni che, ancora oggi, regolano le proprietà collettive, in particolare nell’arco alpino. Questi boschi inizialmente erano solo luoghi produttivi: una volta eseguito l’esbosco, si arrivava a portare, su zattere, il legname fino a Venezia, tanto da poter dire che la città lagunare sia di fatto costruita sui boschi.

Vaia ha colpito a macchia di leopardo ma in Val Visdende si possono vedere vaste aree di alberi caduti come stuzzicadenti: avendo un apparato radicale molto piccolo, sono caduti rapidamente, ma sarebbe successo in ogni caso perché il vento superava i 200 km all’ora. Dice Daniela Perco: “Io abito a Feltre ma nelle cronache di quei giorni non si parlava di Feltre, nonostante avessimo visto anche là cadere alberi come soldati. Feltre ha perso tigli e ippocastani piantati durante il regime fascista che aveva voluto un’operazione di piantumazione molto importante. C’era tutto un impianto di alberi che dava un’identità scenografica anche al paese. E Vaia ha spazzato via tutto, anche il bosco sacro voluto dal duce per ricordare i morti della grande guerra”.

L’identità, le fattezze stesse di un bosco, sono scelte volute dall’uomo. Nel libro sono prese in considerazione alcune zone specifiche. Ad esempio Agordo, dove c’è la più grande industria di occhiali al mondo e i boschi sono stati abbandonati negli anni perché la popolazione locale andava a lavorare in Luxottica, e ora dicono: “ci voleva Vaia per ricordarci che avevamo dei boschi”. Quando i boschi erano curati erano estremamente puliti, invece oggi il terreno è coperto da boscaglia. Vaia non ha guardato in faccia nessuno e ha raso al suolo tutto. Un fenomeno complesso come un disastro non si può valutare e studiare solo dal punto di vista tecnico.

Curiosamente, il nome Vaia è quello di una signora che ha pagato un istituto tedesco che attribuisce il nome sulle mappe alle aree di alta e bassa pressione, dando la possibilità di chiedere, a pagamento, che venga dato il proprio nome ad un fenomeno. Comprare un’area di bassa pressione costa 199 euro, 299 un anticiclone. In realtà nella sua origine tropicale questa tempesta ha il nome maschile di Adrian.

Nelle persone di quei luoghi è rimasta tantissima paura. Vedere cadere gli alberi è stato uno shock da cui ancora la gente non si è ripresa. Il paesaggio è cambiato per sempre. Ripartire dopo un tale dramma è un lavoro psicologico complesso. In Francia, ad esempio, differentemente dall’Italia, hanno messo insieme uno staff di forestali, boscaioli, antropologi e psicologi per aiutare la gente a ricominciare. Da noi, la potenza assolutamente inaspettata di quel vento, ha letteralmente paralizzato le persone. Qualcuno, durante il ciclone, provava a tenere le finestre chiuse con le mani, cosa assai pericolosa. Altri scendevano sottoscala. Ancora adesso quando si alza un vento un po’ più forte del normale, la gente va nel panico. Anche perché senza gli alberi che facevano da scudo, ora i venti soffiano diversamente da prima e arrivano da altri versanti. Per la gente tutto è diverso e confuso e questo incide nella loro psiche.

Per secoli abbiamo vissuto queste montagne compenetrandole e comprendendole ma da un po’ di tempo è come se ne fossimo usciti. Un tempo quello che accadeva lo si percepiva dall’odore, dal tatto, dal suono. Oggi molto meno. Non a caso gli animali si sono salvati. Lassù ci sono 13 mila cervi, 10 mila caprioli e tantissimi animali selvatici che non sono morti. Si parla di appena un cervo e qualche scoiattolo. Come mai? Perché sentono molto prima di noi l’arrivo di qualcosa di così catastrofico. Persino le mucche che erano al pascolo sono sopravvissute radunandosi tutte al centro di un campo. Solo i pesci sono morti, quasi in 500 mila, portati via dalle acque furiose e poi asfissiati nel fango; loro non potevano sfuggire al disastro.

Grazie a dei QRCode presenti nel libro, è possibile accedere ai link di quattro splendidi video realizzati da Michele Trentini in cui, tra testimonianze e silenzi, ci si può immergere in Vaia e in cosa è rimasto. “Abbiamo lavorato molto sulla memoria – conclude Perco. Questo è il primo disastro social e nei social si vedevano cose molto concrete e diverse da quelle che passava la tv. Una famiglia di Feltre ci ha raccontato che sono venuti a sapere del fatto che il tetto di casa loro stava volando via, dai vicini che lo vedevano e postavano su facebook, perché loro erano immobili e terrorizzati in taverna, dopo aver chiuso e spento tutto. Invece i media tradizionali ospitavano parecchia retorica. Se le interviste si facessero adesso i ricordi sarebbero ancora diversi. Nel frattempo sono arrivare nevicate pesanti e grandinate pazzesche e poi il bostrico che sta facendo enormi danni agli alberi sopravvissuti”.

Questo libro ci spiega che dopo Vaia la gente era disperata e si chiedeva chi glielo facesse fare di rimanere ancora là. Per la prima volta c’è stata la percezione netta che un fenomeno locale fosse in collegamento ad un fenomeno globale come il cambiamento climatico. Alcuni se ne sono andati. Chi è rimasto a volte fatica a riconoscere i luoghi per com’erano prima di Vaia. Da un lato c’è stata la distruzione di un paesaggio, dall’altra una nuova possibilità di vedere palazzi, monumenti e scorci prima nascosti. La domanda ora è: che paesaggio dobbiamo recuperare? Quello che c’era prima o uno nuovo? E da Vaia abbiamo imparato qualcosa? 

Foto tratte dai video di Michele Trentini

“Vaia. La tempesta nella memoria” CIERRE edizioni, 2025.

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