Scrivo questa riflessione, che mi pesa sul cuore in modo costante, nel Giorno del Ricordo, il 10
febbraio 2025, tentando di sopire un dolore profondo che mi trafigge con le sue spade ogniqualvolta si
tocca questa memoria disgiunta e calpestata di continuo, soprattutto da chi ai valori di riconciliazione e
di convivenza antepone, per ignoranza e presunzione, una ricostruzione strumentalizzata dei fatti
storici, macchiata di odio e di pregiudizio etnico, culturale e politico.
Per uno strano gioco di sorte, che trascende ovviamente il personale arbitrio, penso che io abbia
diritto e anche dovere di esprimere un parere in merito alla tragica questione giuliano-dalmata, perché
“testimone” di diverse prospettive tra loro antagoniste. Sono nipote di un partigiano che partecipò a
diciannove anni a quella che – ahimè! ‒ tanti considerano un’occupazione e altrettanti, invece, una
liberazione di Trieste. Sono pronipote di un soldato croato (“domobran”), giovanissimo ed
estremamente fragile, gettato in una foiba probabilmente in Slovenia, di cui la madre non ha mai
ricevuto la notizia ufficiale della morte. Ho sposato un uomo la cui famiglia ha vissuto sulla propria
pelle la piaga dell’esilio giuliano-dalmata, trovando rifugio a Vicenza, inizialmente all’Istituto Cordellina.
Risiedo da pochi mesi, guarda caso, accanto al Villaggio Giuliano a Campedello, e ogni volta che apro la
finestra mi viene da esclamare: “Buongiorno signora Mnemosine, son qui, non scappo!”.

Nessuna delle persone citate ha partecipato ai fatti con una reale cognizione di causa. Tutti loro
‒ un serbo, un croato, una famiglia italiana ‒ sono stati travolti da un brutale tsunami che ha sottratto
loro la possibilità di agire in piena libertà. La guerra, il terrore, il panico, la resistenza e la resilienza.
Nessuno di questi piccoli, le cui testimonianze vivono nel mio “archivio di famiglia”, ha voluto
commettere colpe nei confronti di un altro essere umano. Se avessero potuto, ciascuno di loro sarebbe
rimasto a lavorare il proprio orticello di casa. Tutti, invece, sapevano bene che il tremore che sgretolò
quella terra “maledettamente bella e attraente” non abbia avuto ragioni etniche, ma chiaramente
ideologiche, in grado di far agire un odio maturato nei secoli e abbattutosi per lo più sulla povera e
ignara gente.

Di sicuro, se queste voci inascoltate potessero raccontare oggi la loro versione dei fatti, sarebbe
molto diversa rispetto a certe interpretazioni revansciste e riduzioniste che rendono ancora più torbido
il buio della realtà storica. Oso immaginare la loro reazione – commossa? ‒ riguardo la scelta della
“Capitale europea della cultura 2025”: Nova Gorica e Gorizia.
Progetto spiazzante e grandioso. Sta lì il focolare buono della memoria: senza dimenticare le
ferite, ricercare una via nuova della riconciliazione, che passa necessariamente attraverso la conoscenza
e il riconoscimento della storia dell’altro. Credo che ‒ in questo Giubileo della speranza ‒ uno dei
pellegrinaggi interiori d’obbligo sia proprio la memoria del confine “orientale” per gli uni e
“occidentale” per gli altri.