“La Grande Magia” di Eduardo al TCVI: la seduzione dell’illusione

“Io delle volte penso tante cose contemporaneamente, ipotesi, desideri, pensieri … L’uomo vive in media sessant’anni, anche meno, poco eh, troppo poco, perché gli si preparano esperimenti e giuochi per quella determinata durata di anni convenzionali ma se l’uomo potesse vivere, che so, poniamo quattrocento anni, eh allora bisognerebbe rivedere e rifare tutti i trucchi. La politica per esempio così com’è fatta sarebbe un giuoco fallito perché i giovani sarebbero quelli di centocinquant’anni e i discorsi degli uomini politici non troverebbero più credito e dovrebbero anche mantenere le promesse, eh si perché sennò verrebbero fuori i vecchi, quelli di trecentosessantacinque anni a dire “amico mio cambia disco, queste fesserie ce le hai raccontate già trecentocinquantacinque anni fa”.

Un antico proverbio afghano recita voi avete gli orologi, noi il tempo e in questa commedia di Eduardo, il senso relativo dello scorrere non solo del tempo ma dell’esistenza stessa, è uno dei punti fermi della drammaturgia. Relativo perché le cose non sono esattamente come sembrano, perché il mondo è, citando Schopenhauer, volontà e rappresentazione. Proprio l’opera del filosofo tedesco viene in mente guardando “La Grande Magia”. Schopenhauer intendeva con “rappresentazione” l’idea o l’immagine mentale di qualsiasi oggetto percepito come esterno alla mente. Noi viviamo, sorretti da un “un cieco impulso a vivere senza scopo” e poi c’è quello che la mente percepisce o vuole percepire. Il grande drammaturgo napoletano non era forse mai stato così pirandelliano come in questa commedia, che non a caso non ebbe un riscontro di critica e pubblico lusinghiero al suo apparire nelle scene nel 1948. Infatti questo è un Eduardo molto diverso da quello di S’ha da aspettà, Amà. Ha da passà ‘a nuttata, e chissà quanti tra i presenti al Teatro Comunale di Vicenza erano consapevoli di questo. Non scommetteremmo su molti, anche perché, ieri sera, si sono pure viste alcune persone lasciare la sala a spettacolo in corso. Il motivo probabilmente risiede nella falsa speranza di trovarsi di fronte ad una serata comica o pseudo tale con Natalino Balasso, quando invece l’attore rodigino è “solamente” il coprotagonista (seppur splendido) a fianco di uno straordinario Michele Di Mauro che giganteggia per due ore con una maestria esemplare. A Balasso spetta uno dei momenti chiave, quello del terzo atto in cui Calogero Di Spelta è ormai impazzito del tutto e il suo monologo, citato qui in apertura, apre un collegamento con il nostro presente, di ineguagliabile preveggenza. E quando Di Spelta e Marvuglia (Balasso e Di Mauro) in proscenio immaginano una platea che diventa mare, viene da chiedersi come fosse il “mare” di 80 anni fa e come sia diventato oggi, perché questa commedia è una riflessione su noi stessi e su quanto abbiamo perso fiducia, speranza e illusione e al contempo ci facciamo fregare e illudere da tutto.

La regia di Gabriele Russo è abbastanza fedele a quella dello stesso De Filippo ma punta su una scenografia che pare seguire il percorso mentale di Di Spelta, dalla vita mondana iniziale fino alla scarna e grigia malattia finale. Fondamentale l’utilizzo delle musiche e degli effetti sonori. La forza del testo (e quasi sicuramente la causa della sua mancata comprensione iniziale) è quella di non rappresentare la solita napoletanità eduardiana e di investigare, attraverso una storia apparentemente molto semplice, quello che non si percepisce e che avviene nella nostra psiche e di conseguenza nei nostri rapporti sociali, fino a farne esempio antropologico. Eduardo amava moltissimo Pirandello e i due avevano anche scritto un’opera a quattro mani, “L’abito nuovo”, che fatalità parlava anch’essa di infedeltà e terminava col protagonista divenuto pazzo. Qui il centro è tutto attorno al concetto di “illusione”. Dai giuochi del mago e i suoi complici (la solita italietta), al bisogno stesso che abbiamo di credere alle lusinghe della speranza. Una scatola in cui si troverebbe la moglie scomparsa alla fine è da tenere chiusa perché è meglio non sapere, perché l’uomo non si fida più. E quando alla fine la moglie torna, tradita anch’essa dall’amante, il marito, ormai prigioniero della sua illusione, respingerà quella donna per lui estranea: se Marta fosse la donna ricomparsa vorrebbe dire che essa lo aveva abbandonato e tradito, per cui è meglio continuare a credere che sia ancora nella scatola, fedele e innamorata di lui.

Più che di illudersi e più che di illusioni si parla qui di aver abbandonato le illusioni, si parla della fine della giovinezza, di quel gusto amaro delle sconfitte, del disincanto definitivo. Ci sono momenti che non si possono non definire felliniani e vien da pensare che Fellini l’abbia vista e rivista questa commedia. Quel sarcofàgo e quella Desdemòna storpiati nella pronuncia dal mago, ricordano il ciufile di Zampanò, in generale quell’Italia proto circense che usciva dalla guerra portando nelle ferite un’anima da commedia dell’arte malinconica e patetica. La magia, come in “Giulietta degli Spiriti” che diventa rifugio per amori infelici. Insomma, quel mondo onirico e strampalato che tanto amava il genio di Rimini. Ne “La Grande Magia” la società è descritta come subdola e mentitrice, capace di tutto e buona a nulla. Col terzo occhio si danno illusioni di ben altra portata, dice il mago, con ogni mezzo ai danni di tutti e di tutto. Realtà distorta, seduzioni a buon mercato, manipolazioni. Cosa c’è di più attuale? Chissà se così è stata compresa a teatro. Eduardo diceva: “È facile scrivere una commedia “impegnata”; è assai più difficile “impegnare” il pubblico ad ascoltarla”.

Ciao Luciano.

Ha collaborato con questo giornale per molti mesi. Sempre propositivo, entusiasta nel potere diffondere la sua cultura storica su Vicenza.

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