Dopo l’invasione in Ucraina da parte del tiranno Valdimir Putin, la Russia (intesa come popolazione e quindi come identità) è diventata improvvisamente sinonimo di male assoluto ed è iniziata anche una insensata rimozione culturale, figlia di questi tempi in cui il politicamente corretto e la cancel culture hanno la meglio sulla ragione. L’Università degli Studi Milano-Bicocca arrivò addirittura a rinviare, per «evitare ogni forma di polemica soprattutto interna in quanto momento di forte tensione», un ciclo di lezioni sul romanziere Fëdor Dostoevskij tenute dallo scrittore ed esperto di letteratura russa Paolo Nori. Confondere la politica con la cultura è un errore ahimè non recente, ma si sta facendo sempre più ricorrente. Ma è bene non scordare mai quanto la Russia sia stata fondamentale per la cultura europea tra la fine dell’ottocento e almeno metà del novecento. Scrittori, compositori, registi, che hanno segnato la storia del pensiero. Cosa saremmo senza Tolstoj, senza Dostoevskij, Gogol, Majakovskij? E il cinema di Eisenstein e Michalkov e dell’immenso Tarkovskij? Ma visto che parliamo di musica, come si può prescindere da una serie di compositori che parte dal gruppo dei cinque, passa per Tchaikovski e arriva fino alle vette altissime di Shostakovich? Tra quest’ultimo e i precedenti si svolge l’attività di Igor Stravinskij e di Sergei Prokofiev, due autori talmente d’avanguardia all’epoca da risultare modernissimi anche oggi. Ecco quindi che una serata in cui immergersi nella clamorosa spinta culturale russa del novecento è quindi di per sé già qualcosa di importante, se poi in programma ci sono due partiture così avveniristiche e significative come il Romeo e Giulietta di Prokofiev e la Petrushka di Stravinkij, il tutto diventa ancora più eccitante.

Erano anni irripetibili e di continui mutamenti. I grandi del novecento rivoluzionavano la materia con cui lavoravano e ad ogni conquista passavano ad altro, ponendo il limite sempre più in là. Schonberg aveva gettato via l’espressionismo per l’atonalismo e l’atonalismo per la dodecafonia, Pound e Joyce avevano gettato via ogni forma di linearità per il mosaico multitemporale del Finnegans Wake e dei Cantos, Picasso e Matisse avevano stracciato una dozzina di stili e avevano sempre poi ricominciato da capo. E Stravinskij, il Picasso della musica, era passato dal periodo russo a quello neoclassico a quello dodecafonico o seriale. Del primo periodo, quello russo, è Petrushka, che lo stellare sestetto Ensamble Metamorphosi ha portato al Teatro Comunale di Vicenza. Una riduzione che esalta la commistione di ritmo, dinamismo, temi sovrapposti, fughe, jazz e qualcosa che 50 anni dopo si chiamerà addirittura rock (sogno o son desto nel sentire i King Crimson in Stravinsky?). Lo stesso dicasi per il capolavoro assoluto di Prokofiev, quel suo Romeo e Giulietta che creò dimensioni nuove per la musica, dal punto di vista armonico, melodico, ritmico e timbrico. Parliamo di due geni che avevano una straordinaria sensibilità per la scrittura orchestrale, per la strumentazione capace di evocare effetti sonori e fantastici. Ed è lì che sono da ricercare i tratti più evidenti, personali e innovatori, della loro bizzarra originalità, è lì in cui si coagulano concretezza discorsiva e lirici abbandoni, energici movimenti e raffinati colori, sempre pungolati, e senza indulgenze, da una febbrile ansia di libertà.

La performance dell’Ensemble Metamorphosi è stata degnissima di cotanto spessore storico. L’amalgama tra i sei musicisti era perfetto, il suono sul palco pure, Andrea Oliva al flauto e Alessandro Carbonare al clarino sono stati i protagonisti forse più evidenti ma tutto l’ensemble ha dato una grande prova. C’è da dire che musiche per balletto “ridotte” a suite sono già in qualche modo qualcosa di diverso dall’origine ma non significa affatto sia qualcosa di minore. E le versioni ancora più accorciate per forza di cose ascoltate al Comunale di Vicenza hanno lasciato l’entusiastico pubblico con un senso di elettrizzante sferzata.
