PLAYLIST 2024. I MIGLIORI 50 DISCHI DELL’ANNO SECONDO VICULT.

La classifica di fine anno, occorre sempre ripeterlo, non ha assolutamente la presunzione di essere esaustiva e la sua incompletezza è dovuta alle troppe uscite che ormai da moltissimi anni sono l’abitudine della società musicale liquida e quindi all’impossibilità di ascoltare davvero tutto. ViCult ogni trimestre si è dato l’obiettivo di segnalare dieci dischi usciti in quei mesi (qui, qui, qui e qui) ma nonostante questo, arrivati al lavoro di riassunto annuale, ci si è accorti che diverse uscite sono sfuggite e le si sono recuperate solo recentemente. La playlist quindi non ha la pretesa di selezionare davvero i migliori dischi. Su questo tema per altro si potrebbe (e si dovrebbe) aprire un discorso molto ampio. Cosa oggi può dirsi migliore nel mondo del rock e dintorni? Il disco dell’anno del 2024 dà una parziale risposta a questa domanda ma a quello ci arriviamo dopo. Ci sono due critici musicali che hanno più di altri segnato gli ultimi decenni e sono sicuramente Simon Reynolds e Alex Ross. Entrambi, seppur in maniera differente, hanno dapprima constatato la fine del rock come motrice sociale e riferimento culturale, come narrazione dei tempi, come cordone ombelicale generazionale, e poi capito che la spinta creativa della musica che proprio nel 2024 ha compiuto 70 anni, si era esaurita ormai nei primi anni del nuovo secolo. Non a caso, dopo aver definito il post rock negli anni ’90, Reynolds poi parlerà di retromania per quell’atteggiamento dei nuovi artisti che si rifanno al passato a volte in maniera calligrafica. Le domande erano: perché non sappiamo più essere originali? Cosa succederà quando esauriremo il passato a cui attingere? Dall’altra parte dell’oceano, Alex Ross intanto sfornava libri e articoli in cui disegnava la storia culturale del novecento attraverso la musica (tutta la musica) riuscendo a far convivere Bartok e Dylan, Stravinsky e i Radiohead ma arrivando poi a dire che “tutta la musica è destinata a diventare classica” che è un concetto che pare banale ma tale non è. In sostanza molti di noi, che hanno vissuto mentre i Beatles, i Velvet Underground, Brian Eno, Tom Waits, i Talking Heads, Prince eccetera… realizzavano i loro capolavori, hanno di fatto avuto lo stesso privilegio di chi visse quando c’erano Mozart, Haydn e Beethoven. Poi quella musica divenne classica e oggi la chiamiamo così, ma ci sfugge magari che la stessa cosa è successa al rock e che da un po’ di tempo quel che ci fa vibrare quando è “fatto con le chitarre” è più o meno simile a quanto può emozionarci una nuova composizione da camera composta da un’artista contemporaneo ma che difficilmente sarà come i concerti brandeburghesi. Nell’ascoltare nuova musica quindi il critico deve ricordarsi il piano oggettivo e quello soggettivo e capire che di “nuovo rock” ce n’è ben poco e che invece nel meticciato, nel citazionismo colto, nelle sperimentazioni d’avanguardia ci sono le strade più affascinanti, oltre che nei territori urban. Certo, il rock rimane, e anche in questa classifica lo troverete, ma si tratta perlopiù di band ormai storiche o in attività da molto tempo e quindi portatrici di un loro personale verbo come i Godspeed You! Black Emperor (giusto per citare l’unica band rock nei primi dieci posti) che però esordirono nel 1998 in piena era post e con un suono che era unico allora e tale rimane con pari peso sull’attualità.

Dopo questa lunga ma doverosa premessa ecco la classifica dei migliori cinquanta dischi del 2024 secondo ViCult. Buona lettura e buon ascolto.

1- CINDY LEE “DIAMOND JUBILEE”

Il disco dell’anno per il 2024 è un’opera talmente piena di significati e significanti che per descriverla pienamente occorrerebbe redigere un piccolo saggio. Partiamo dall’artista. Lui è Patrick Flegel, con il fratello Matthew era membro degli Women, band di Calgary che assurse allo status di cult fin da diventare simbolo per il cosiddetto “Calgary Sound”, un pastiche di melodie e canzoni sepolte sotto coltri di un rumoroso post-punk con la chitarra al centro della chiesa e le originali strutture dei brani che guardano prepotentemente alla psichedelia. Il gruppo si scioglie nel 2012 e Patrick Flegel comincia il progetto Cindy Lee ispirato alle dive di un tempo, e dalle sonorità piene di una dolorosa bellezza, che ricordano le colonne sonore dei film di David Lynch, ma pure i Broadcast e in generale un romanticismo underground, qualcosa che fa venire in mente le fotografie di Nan Goldin e tutto un immaginario ben preciso. Immaginate i Velvet Underground che suonano la colonna sonora di Velluto Blu, il noise che si mescola alle canzoni di una grande diva del passato un po’ invecchiata. Già perché il personaggio Cindy Lee è una drag queen portata in scena da Patrick che si esibisce spesso in falsetto e quasi sempre da solo. Nel giro di pochi anni il nome diventa di culto, sempre sospeso tra pop e abrasività, tra melodie e inquietudine. Questi gli antefatti. La bomba vera esplode a fine marzo di quest’anno, quando in un sito realizzato su Geocities che sembra uscito dall’internet di fine anni Novanta, compare in streaming l’album “Diamond Jubilee”. Un paio di giorni dopo arriva anche su Yuotube, come link unico. Nessun’altra piattaforma e nessuna realizzazione fisica. Fine. Di Spotify neanche a parlarne perché per Flegel testualmente: «THE CEO OF SPOTIFY IS A THIEF AND A WAR PIG. HE STOLE 100 MILLION EUROS FROM ROCK AND ROLLERS AND USED THE MONEY TO INVEST IN “HELSING”. “HELSING” IS A MILITARY ARTIFICIAL INTELLIGENCE INNOVATOR». Insomma uno tosto, che vive letteralmente in un mondo a parte, un marziano atterrato in un pianeta di cui riconosce a stento i meccanismi. E la sua musica non può non ricalcarne l’attitudine. Perché se già tutto questo non bastasse ad alzare le antenne (anti-marketing, arte e artista non binari, assoluta adesione alla bassa qualità audio e al do it yourself, riferimenti musicali enciclopedici) c’è il fatto che il monumentale doppio album (due ore di durata) è bellissimo. Se ne accorge subito Pitchfork, il magazine musicale più seguito al mondo, che dà al disco un 9.1, il voto più alto dai tempi di Fetch the Bolt Cutters di Fiona Apple del 2020. Il passaparola a quel punto diventa vero e proprio hype. Ma che musica c’è dentro a questo lavoro fin qui descritto quasi come fosse un’opera di arte concettuale e basta (cosa che comunque è, e pure molto, e già sarebbe un valore decisivo)? Il melange di stili di Diamond Jubilee, unito dalla pura forza dell’immaginazione e dalla nebbia della registrazione domestica, non può non ricordare gli anni ’90 della giovinezza dell’artista. I Guided by Voices, con le loro voluminose raccolte di classici immaginari di un tempo, si affacciano alla ribalta. Così come gli Yo La Tengo, per il modo in cui riescono a far sembrare persino un feedback ululante come un dolce nulla sussurrato. Ma laddove questi gruppi facevano virtù di un certo dilettantismo – la sensazione che stessero mettendo insieme inni con gli unici quattro accordi che sapevano suonare – Diamond Jubilee è un’opera di grande maestria. Nelle sue trentadue canzoni si possono sentire sicuramente i Velvet Underground, ma anche le sezioni ritmiche blues dei Rolling Stones, la potenza e la ripetitività del krautrock, la psichedelia dei Doors e quella dei 13th Floor Elevators, i Fleetwood Mac, la spigolosità del post-punk, il dream pop, la sensuale abrasività dei Jesus and Mary Chain, echi dell’ambient di Basinski… Qualcuno ha nominato Blonde di Frank Ocean. Un commento su YouTube dice che sembra la colonna sonora di Breaking Bad se l’avesse diretto David Lynch. Ci sono dentro il pop dei Sessanta, la psichedelia dei Settanta, il suono radiofonico degli Ottanta e il lo-fi dei Novanta, in un disco che suona come una distante, disturbata trasmissione radiofonica. Ecco forse l’esempio migliore. Come dice proprio Pitchfork: “Questa potrebbe essere la stazione radio più bella che abbiate mai incontrato. A meno che non si tratti di più stazioni che parlano l’una sull’altra, entrando e uscendo dal raggio d’azione. I suoni arrivano in strane combinazioni; niente è esattamente come lo ricordate”. E qui, in fine di recensione, ci attacchiamo all’intro di questo articolo, perché il lavoro di Flegel in questo ambiziosissimo e definitivo album, è proprio quello di connettersi idealmente a stazioni radio ideali che provengono da un passato ormai remoto, e non sempre danno un segnale nitido, ma ci raccontano di come eravamo e lo fanno in maniera ovviamente amatoriale e analogica, ma noi, nell’era della tecnologia uber alles, “sentiamo” tutto questo come fossimo degli alieni alle prese con un’antropologia sonora per capire chi era poi questo uomo che abitava quei tempi e come mai ora lo stesso genere umano è così diverso. Il disco non prova nemmeno a essere innovativo nel senso tradizionale del termine: non arriva alla sua innegabile rilevanza artistica cercando di scoprire il suono del futuro. Quello che fa è invece prendere certe selezionate cose dal passato, metterle in una capsula, e portarle in un’altra, eterea dimensione. Prendere i migliori ricordi di un mondo alla deriva, e spostarli su un altro piano di realtà, in un altro pianeta. Non vi ricorda qualcosa dei tempi e delle disperate prospettive che stiamo vivendo? Pare che questo disco segnerà la fine del progetto Cindy Lee. Sinceramente non sapremmo cosa poter chiedere di più. Ah, quasi dimenticavamo, a fine novembre ha aperto un proprio Bandcamp da cui finalmente si può ordinare l’album anche nel suo formato fisico.

2- JULIA HOLTER “SOMETHING IN THE ROOM SHE MOVES”

Julia Holter è senza alcun dubbio uno dei nomi più importanti dell’ultimo decennio (abbondante). Dopo 6 lunghi anni di attesa, ecco quello che può essere il suo disco definitivo, in cui confluiscono le materie d’avanguardia, jazz e ambient, in una terra dove la miglior Kate Bush incontra il miglior Robert Wyatt.

3- OLIVIA BLOCK “THE MOUNTAIN PASS”

Una delle protagoniste della scena sperimentale di Chicago di fine anni novanta, Olivia Block con questo strepitoso disco si spinge su un nuovo terreno, introducendo la sua voce e la batteria suonata da Jon Mueller in assemblaggi fluidi che passano senza soluzione di continuità da toni ruminanti di organo e arie frammentate di pianoforte a esplosioni di synth sfrigolanti e percussioni fragorose.

4- JEFF PARKER “THE WAY OUT OF EASY”

Il disco jazz (qualsiasi cosa voglia oggi dire) dell’anno. La chitarra di Parker ricama dissonanze, accordi sbilenchi e arpeggi melodici inserita alla perfezione in questo quartetto spettacolare composto da Parker, dal sassofonista contralto Josh Johnson, dalla bassista Anna Butterss e dal batterista Jay Bellerose. Quattro lunghi brani aperti dal punto di vista emotivo, per niente propensi a guidare l’utente verso riferimenti specifici o modalità di sentimento. A volte l’improvvisazione prolungata porta con sé un’aspettativa di dramma, in cui si pensa a ciò che è appena accaduto e a ciò che potrebbe accadere dopo. Un disco eccezionale che fissa l’attenzione sul momento presente.

5- AROOJ AFTAAB “NIGHT REIGN”

Night Reign è il quarto album in studio della cantante e compositrice pakistana Arooj Aftab. Un’opera di rara bellezza che spazia tra la musica folk pakistana e il jazz ed è incentrata sul tema dell’oscurità e della notte. Ma l’elemento che si rivela più emozionante è la voce sommessa di Aftab. La sua serena cadenza crooning è caratterizzata da una gamma di suoni che rendono i brani delicati e allo stesso tempo pieni di sentimento in modo quasi inquietante. Questo mix seducente rende l’album un’oscurità attraente in cui immergersi.

6- GODSPEED YOU! BLACK EMPEROR “NO TITLE AS OF 13 FEBRAURY 2024 28.340 DEAD”

Quando un gruppo produce due capolavori assoluti tra il 1998 e il 2000, che cambiano la percezione del concetto stesso di rock e poi, dopo un disco forse minore nel 2002, si prende una pausa di ben 10 anni per tornare più deciso, più urgente, più totalizzante di prima, allora quel gruppo è qualcosa di epocale. Adesso arriva questo nuovo e rappresenta per noi qualcosa di importante perché la band sarà a Vicenza, al Teatro Comunale, il prossimo 10 marzo. Maestoso, urgente, tellurico, deflagrante, impetuoso ed epico. Il nuovo lavoro dei Godspeed You! Black Emperor è uno dei loro migliori e li conferma come il gruppo di post rock che più di ogni altro è riuscito a rimanere attuale negli anni.

7- OREN AMBARCHI “GHOSTED II”

Secondo capitolo del progetto Ghosted e questa volta la virata jazzy è più decisa. Il trio apre una finestra su nuovi campi di fusione: teste funk-jazz, scheletri poliritmici, pastorali ambient, droni post-kraut e scintillanti riverberi da colonna sonora. Una musica dalla tensione sostenuta e dall’atmosfera profonda, segnata da dinamiche sottili e mutevoli che giocano in un campo sonoro aperto.

8- RAFAEL TORAL “SPECTRAL EVOLUTION”

Quarantasette minuti di suoni della natura immersi nella chitarra e nell’elettronica dell’autore. In alcuni momenti l’elettronica di Toral si riduce quasi a un sussurro, mentre in altri si sente un lamento, uno stridio come quello di una foresta pluviale. Allo stesso modo, il suo uso della chitarra abbraccia un’enorme gamma dinamica e testuale, da accordi chimerici a droni espansivi, da una chiarezza cristallina a una grana sfocata. Il prodotto di tre anni di sperimentazione e registrazione, che sintetizza le intuizioni di più di trent’anni di ricerca musicale.

9- MOUNT EERIE “NIGHT PALACE”

Ispirato alla meditazione Zen, l’ennesimo grande disco di Phil Elverum spazia nei suoi 80 minuti tra praticamente ogni genere che l’artista ha affrontato negli ultimi 25 anni, ma sempre nel suo modo domestico e privato, seppur lontano dal lancinante dolore del capolavoro assoluto “A Crow Looked At Me” e più aperto a incursioni rumorose. A tratti un album talmente denso e di una purezza introvabile.

10- NALA SINEPHRO “ENDLESSNESS”

“Endlessness”, il secondo disco di Nala Sinephro, è incentrato su un arpeggio. La compositrice londinese modula questa frase ascendente, la estende, la suona più lenta e la lascia scivolare nell’inudibilità e scomparire. Ci trasporta come una marea attraverso le 10 tracce dell’album, tutte intitolate “Continuum”, un nome perfetto per ognuna, anche se questo LP non è una serie di variazioni su una singola composizione. I suoi dettagli si trasformano a ritmo incalzante. I suoi 45 minuti assomigliano a un lago: ampio, sereno, coerente, ma mai piatto.

11- THE NECKS “BLEED”

Sono quarantadue minuti di sogno liquido, di sospensione eterea in un mare screpolato di seta. Il lavoro forse più ambient del fenomenale trio australiano che da più di 30 anni ha portato un nuovo modo di intendere il concetto di improvvisazione avvicinando palati meno avvezzi alla musica colta contemporanea. Quarantadue minuti di profonda e ininterrotta esplorazione musicale.

12- BILLIE EILISH “HIT ME HARD AND SOFT”

“Hit Me Hard And Soft” è un disco stupendo, un unico flusso di coscienza di 43 minuti. Ambizioso, squisitamente prodotto, in un anno segnato da grandi uscite pop poco soddisfacenti, Billie Eilish si distingue per il suo approccio audace e rischioso. Stiamo finalmente vedendo l’artista dietro l’avatar baggy-goth? Interrogando la sua immagine pubblica e la cultura dei suoi fan, Billie propone un album inquieto che è in egual misura un sospiro e un grido. I fratelli O’Connell attraversano in punta di piedi un percorso pericoloso e pieno di insidie e, un po’ miracolosamente, approdano a un disco stupefacente che suona alieno come le creature delle profondità marine nelle trincee nere come la pece. Forse il disco mainstream pop migliore degli ultimi dieci anni.

13- ST.VINCENT “ALL BORN SCREAMING”

Annie Clark non ha mai davvero sbagliato un disco fino in fondo, però è difficile dire quale sia il suo top e inquadrarla bene definitivamente. L’omonimo album del 2014 all’epoca sembrò il suo disco migliore, come a consolidarla dopo la fruttuosa esperienza collaborativa con David Byrne, poi arrivò “Masseducation” col suo glam pop plasticoso e ancora la direzione pareva mutata. Mancava il disco “compendio”, quello in cui usciva l’artista raffinata, la superba chitarrista e la compositrice di un art- rock mutante e cinematico. Ed eccolo qui. “All Born Screaming” ha tutto per essere il disco a 360° di St Vincent. Un collage sonoro degli ultimi 40 anni di musica.

14- KALI MALONE “ALL LIFE LONG”

Kali Malone continua a dare senso al concetto di “contemporaneo”. Compositrice d’avanguardia, sperimenta l’elettroacustica e la drone music in un modo sorprendentemente accessibile. In questo nuovo lavoro, ritorna all’organo e ad un qualcosa che si posiziona tra il devozionale e il contemplativo. Un passo in più verso quella che i recensori sbrigativi chiamano “modern classic”.

15- KIM GORDON “THE COLLECTIVE”

La cosa migliore uscita in casa Sonic Youth dai tempi di “Sonic Nurse”. Kim dimostra di essere ancora adesso, nel 2024, a 71 anni, un’artista avanti e fuori dagli schemi e la vera portabandiera del verbo della gioventù sonica. Questo disco è un groviglio di feedback, di beat incespicanti e sporchi, di frasi nonsense, di rumore industriale, con tutto che rimane al contempo eccentricamente accessibile.

16- DIRTY THREE “LOVE CHANGES EVERYTHING”

Un’unica suite in sei parti, magmatica, sporca, corrosa, che mescola peccato a redenzione, trova soluzioni nei rivoli di meditazione spontanea, in un naturismo arcaico e viscerale. Il disco del trio in cui il primitivismo di Warren Ellis esce fortissimo e finalmente affiancato e non meramente sostenuto da Jim White e Mick Turner. Si, è sempre l’epoca di Nick Cave e questo album è un compendio incredibile a “Wild God”.

17- NICK CAVE & THE BAD SEEDS  “WILD GOD”

Questo è un disco che parla di gioia. E non di felicità e nemmeno di euforia, ma di gioia. Perché quando Mr. Cave ha pianto tutte le sue lacrime nel suo completo nero, alla fine ha capito che tutti hanno o hanno avuto un lutto eppure il sole sorge, si piange ancora, si ama ancora, si fanno i sughi e si pagano le bollette. E allora ha capito che la GIOIA è quella di essere vivi. Come cosa pensante. Come qualcuno che si rende conto che ha altre 7 miliardi di persone a fianco. Dio santo se non ti viene da piangere non hai un cuore amico mio, te lo dico.

18- JESPFUR “PEDESTRIANS OF BRIGHT SILENCE

Tredici idee di brani, di musica non compiuta, onirica e claudicante, con una produzione lussureggiante, splendida e atmosferica, accompagnata dalla voce emotiva e potente di Jespfur e da una pletora di altri suoni eclettici.

19- MOS ENSEMBLE “PETS AND THERAPY”

Belgi, alla terza uscita, sono in otto, suonano un jazz contaminato dal pop, dall’indie, dal folk, dalla contemporaneità di un sound che si rigenera traccia dopo traccia senza alcuna pretesa e che, proprio per questo, cattura e seduce. Energia e dramma, fragilità e potere, euforia e malinconia.

20- ONEIDA “EXPENSIVE AIR”

Massimo rispetto per gli Oneida da Brooklyn, che arrivati al 17esimo album mostrano ancora una solidità, una creatività e un’onestà di proposte davvero eccezionali. Una band che non è mai scesa a compromessi, e che in questi 33 minuti sfodera un rock psichedelico inserito in una forma canzone spinta ai suoi limiti e oltre per diventare più dura, più veloce e più dissonante. Il primo brano soprattutto (Reason To Hide) è una delle cose migliori mai prodotte in carriera. Un robotik che mette a frutto la lezione dei Can in un riff che scolpisce il lungo intro strumentale infestato che si muove a scatti.

21- LOMA “HOW WILL I LIVE WITHOUT A BODY?”

Lungi dall’essere una “versione pop dei Low” come negli anni è stato scritto su loro, tornano i Loma con un disco quasi perfetto, un album splendido, unico e stranamente confortante che parla di collaborazione, perdita, rigenerazione e lotta contro la sensazione di essere soli.

22- VIJAY IYER “COMPASSION”

Vijaj Iyer torna con lo stesso trio con cui aveva realizzato il bellissimo “Uneasy” nel 2021. Questa volta il titolo svela fin da subito che il disco si dispiega sulle corde di un sentimento doloroso, figlio anche del tempo che viviamo. Ed è un altro splendido lavoro, l’ennesimo, di un pianista che è arrivato al 25esimo album, tenendosi costante su un livello altissimo.

23- ENGLISH TEACHER “THIS COULD BE TEXAS”

Nel Regno Unito ultimamente è in corso un vero revival post-rock. Come spesso storicamente accade, gli inglesi riprendono stilemi puramente Made in Usa e li ripropongono rivisti e corretti. Parliamo di band come i Black Country New Road, Black Midi, Still House Plants, e ora questi bellissimi “English Teacher” che ricamano barocchismi folk e spoken words che nella title track ricordano addirittura le migliori pagine dei Gastr Del Sol.

24- MARUJA “CONNLA’S WELL”

Si tratterebbe in realtà di un EP ma merita talmente che lo inseriamo per “acclamazione”. I Maruja sono mancuniani e sono giovani. Fanno qualcosa che è impossibile non amare ed è altrettanto impossibile non mettere nelle caselle della memoria perché è stato davvero già fatto prima. Post-tutto, letteralmente. Ma talmente vivi, tellurici, iconoclasti e “free” da essere una delle esperienze più fisiche e profonde attualmente là fuori. Punkjazz o Jazzpunk. Chissenefrega alla fine. Tanto il rock è finito 20 anni fa, quindi perché ascoltare roba nuova? Beh, qui ci sono i Morphine, i Fugazi, i Tortoise, ma anche i Bad Seeds, ma fino addirittura ad echi Van Der Graaf Generetor ma poi altre cose simili o meno simili e anche più vecchie.

25- KAMASI WASHINGTON “FEARLESS MOVEMENT”

“Fearless Movement” è un trionfo! Kamasi Washington realizza il suo lavoro più completo e contemporaneo che alza l’asticella del jazz moderno ed eleva al contempo le possibilità della musica popolare nera. Tre dischi in 10 anni, ma tre pietre miliari. Fin dal monumentale “The Epic” del 2015, Kamasi Washington mischia gospel, Blue Note e Impulse!, Sun Ra, R&B, rap, hip-hop, funky, urban music in un personalissimo third stream che definisce il jazz del ventunesimo secolo. Imprescindibile e LA risposta a chi ti dice che “il jazz è morto”.

26- BETH GIBBONS “LIVES OUTGROWN”

L’attesa era tantissima eppure il risultato è all’altezza delle speranze. Dalla casa madre Portishead, Beth porta l’eleganza della sua voce e delle melodie che ondeggiano posandosi sul suono come pensieri sui ricordi. Ma qui siamo in un folk spirituale che ritrae l’intersezione tra dolore e vita. Un pop da camera orchestrale ricco di dettagli che sostiene una straordinaria esplorazione dell’invecchiamento e del tempo che è tanto accattivante quanto devastante. La musica di Beth Gibbons si arricchisce con il passare degli anni. Dopo l’esperienza con Paul Webb ora c’è un altro Talk Talk con lei, Lee Harris, a rimarcare il fatto (se mai ce ne fosse bisogno) che la band di Mark Hollis è una delle band definitive degli ultimi 40 anni e che “Spirit of Eden” e “Laughing Stock” sono ancora dei miracoli.

27- GASTR DEL SOL “WE HAVE DOZEN OF TITLES”

Quando è giunta la notizia di una nuova pubblicazione del duo più incredibile del post-rock, quasi non ci si credeva. Di fatto non è un disco “nuovo” e di reunion non si parla. Ma quando parte la versione live di “The Season Reverse” che apre il disco, è un colpo al cuore. La statura di questa band è ancora oggi probabilmente non compresa fino in fondo. Da recenti interviste si è capito che nemmeno Grubbs e O’Rourke fossero consapevoli del livello artistico straordinario che proposero in quegli anni. Una carriera finita con quel capolavoro enorme chiamato “Camoufleur” segnata da pochi ma irripetibili dischi che ascoltati oggi sono ancora alieni. Contemporanea ed avanguardia nel vero senso del termine. Qui abbiamo versioni dal vivo, inediti in studio e live, ma soprattutto abbiamo 100 minuti abbondanti di musica di livello stellare grazie a due veri, indiscussi geni.

28- JESSICA PRAT “HERE IN THE PITCH”

Dura appena 27 minuti e si inerpica lieve in percorsi retrò, eppure è un disco che ti si attacca addosso questo di Jessica Pratt. Qualcuno ha scritto di “folk ipnagogico” ed è una definizione molto calzante. Ascoltando queste nove canzoni si può pensare che ci sia qualcosa di nostalgico a cui aggrapparsi – e forse c’è – ma ciò che è così gioioso e utile in questa raccolta è il distacco da ogni particolare etichetta generazionale. Siamo in un “endless summer” anni ’60 che odora di modernariato e di chansonnier fatali. Crea dipendenza.

29- FLOATING POINTS “CASCADE”

Cosa vuoi dirgli a Sam Shepherd che in meno di dieci anni ha fatto il disco che si sognavano i Tortoise (Elaenia), ha messo insieme la London Symphony Orchestra e Pharoah Sanders per il disco dell’anno nel 2021 (Promises, uno dei dischi più belli degli ultimi 10 anni) e adesso torna con un’ora scarsa di electro da urlo? Non è un semplice ritorno alla dance club, ma una summa di quello che il genio di Floating Points può fare quando ha la briglia libera. La stragrande maggioranza di questi brani è una master class in tensione, groove e sviluppo. Mesmerizzante e abbagliante, l’intera operazione ha l’impressione di essere un’uscita libera nello spazio.

30- THE CURE “SONGS OF A LOST WORLD”

Sedici anni di attesa sono tantissimi, e considerando che gli ultimi lavori di Smith e soci non erano propriamente memorabili, c’era pacato scetticismo attorno all’uscita di questo nuovo lavoro che invece si dimostra un monolite di cupo esistenzialismo con un inizio e una fine da brividi e in mezzo altri sei brani perfetti nel loro essere maestosamente desolati. Ma è la fine soprattutto che segna questo disco, si chiama “Endsong” ed è uno dei brani migliori dell’intera carriera dei Cure. All’album mancano quegli aspetti più pop che hanno fatto la storia della band, ma è un ritorno molto più che dignitoso e di grande valore.

31- LAURA MARLING “PATTERNS IN REPEAT”

L’ottavo disco di Laura Marling è il suo migliore. La palette di colori è la stessa di sempre e ha toni caldi e di conforto pacifico, dal tono di voce alla morbidezza del suono e alla trasparenza dei testi. Dimenticate completamente le sfumature meno levigate dei primi lavori, Laura è finalmente padrona del suo songwriting intimo e i riferimenti a Joni Mitchell (ma quale cantautrice donna può sfuggirci in realtà?) pur sempre presenti permettono comunque traspaia limpido il talento dell’autrice e la bellezza di queste 11 canzoni.

32- CHARLI XCX “BRAT”

Impossibile escludere il vero fenomeno pop dell’anno, anche perché il disco ti si appiccica addosso e non ti lascia più. Un’esaltante ode alle molteplici sfaccettature della club culture. Montagne russe iper pop di ritorno da saturno, una droga nuova per un suono un suono più crudo, più grintoso e più sofisticato, ma non per questo meno divertente. Un disco che è già classico del club anni ’20 ed è destinato a rimanere.

33- REAL ESTATE “DANIEL”

I Real Estate sono una band perfetta per la primavera. Il disco nuovo è uscito a fine febbraio, col solito jingle jangle, con il solito sorriso malinconico, con il solito arrangiamento che però pare essere sempre diverso, con le piccole storie intime, tra Feelies e Byrds, una colonna sonora perfetta per il Sundance Festival. Uno dei gruppi con cui rimanere sempre studenti.

34- FRIKO WHERE “WE’VE BEEN WERE WE GO FROM HERE”

Esordio stupendo quello dei Friko. Questa voce sempre sul punto di rompersi, queste chitarre (tante) che sono marea che salescende e poi tutto prende, questo senso struggente di vulnerabilità. Un romanzo di formazione in salsa feedback. Trentasei minuti quasi perfetti con il brano che apre e quello che chiude come vette incantevoli del tutto.

35- THE SMILE “CUTOUTS”

Secondo disco in un anno per Thom Yorke, Tom Skinner e Johnny Greenwood ed è anche meglio del primo sebbene venga dalle stesse sessions. Un’emozionante testimonianza della chimica quasi telepatica che questi tre musicisti hanno affinato in due anni di tournée. Un disco libero, jazzy, psichedelico, forse non perfetto ma non si possono biasimare Thom o Jonny per non avere alcuna fretta di pubblicare un altro disco dei Radiohead. Quando uscì “A Moon Shaped Pool” la BBC Radio 6 Music trasmetteva ogni brano in sequenza, con reverenza, come se stesse tramandando le tavole del Monte Sinai. Troppa pressione. The Smile in confronto è uno spasso.

36- THE DECEMBERISTS “AS IT EVER WAS SO IT WILL BE AGAIN”

Miglior disco della band di Colin Meloy dai tempi dell’acclamato “The King Is Dead” che era il 2011 quindi il “bentornati” è sentito particolarmente. I trovatori folk bilanciano ballate fuori dal tempo con una sensibilità matura, in sintonia con la malinconia e la mortalità del presente. C’è un’inaspettata vena dolceamara in questa raccolta di canzoni che ti entrano all’istante salvo forse l’ultima, epica, che in quasi 20 minuti sprigiona invece quel lato prog un po’ troppo tirato per i capelli, che è il difettuccio della band di Portland, ma il disco rimane di altissimo livello.

37- THE THE “ENSAOULMENT

Il ritorno di Matt Johnson è su più che buoni livelli ed è bello ritrovare un vecchio amico. Ha l’unico limite di arrivare 24 anni dopo l’ultimo disco, che già veniva 7 anni dopo “Dusk”. Inoltre ascoltandolo si ha l’impressione di affrontare un solo lungo brano di 45 minuti. Pur essendo stilisticamente vario, a volte può risultare un po’ carente in termini di dinamismo, in quanto rimane in modalità mid-tempo per gran parte delle 12 tracce, mentre la vivacità creativa del loro primo periodo compare raramente. Un disco notturno, del solito blues urbano che mischia Hank Williams a un Leonard Cohen industriale.

38- MAX RICHTER “IN A LANDSCAPE”

Torna il compositore contemporaneo più noto degli ultimi anni con un’opera che nel titolo omaggia il genio di John Cage. Piano, tastiere, quartetto d’archi, clarino e sax, questo l’ensemble che esegue le partiture di Richter, come sempre nel suo mondo postminimalista fatto di lievissimi movimenti in superficie sopra ad un corpo emotivamente intensissimo. Le melodie di Richter degradano in accordi cupi per creare un’atmosfera oscura. Dopo i “Blue Notebooks” la splendida rivisitazione di Vivaldi e il progetto “Sleep”, l’ennesimo grande lavoro di questo grande classico vivente.

39- FATHER JOHN MISTY “MAHASHAMASHANA”

Joshua Michael Tillman ne ha fatta di strada dai tempi di “Helplesness Blues” mentre i suoi ex compagni Fleet Foxes non hanno mantenuto le enormi promesse iniziali. Questo è il suo sesto album a nome Father John Misty ed è probabilmente il suo migliore. Sicuro, completamente formato, rifinito e farcito con una successione di canzoni emotive e robuste, un album che unisce in modo impeccabile stile e sostanza. Con la solita dose di humor, di LSD e di raffinatissima e artigianale capacità di scrivere splendide canzoni.

40- KENDRICK LAMAR “GNX”

Già oggi si può dire che Kendrick è forse l’artista più rappresentativo degli ultimi 10 anni (stiamo stretti) e che “To Pimp A Butterfly” è uno di quei 4 o 5 dischi da dare in mano alla storia per spiegare il ventunesimo secolo, o almeno quello che è il ventunesimo secolo finora. Ovvio che un suo album nuovo susciti un interesse enorme soprattutto se esce a sorpresa. Un omaggio al “west coast hip-hop”, un disco sicuramente diverso dai suoi precedenti che lascia qualche perplessità che mai prima d’ora Kendrick aveva suscitato. Come ha scritto il NY Times il tributo di Lamar alle sue radici californiane è un po’ un ripiegamento sulla sua “zona di comfort” e l’album alla fine è “impressionante ma leggero” con una produzione decisamente troppo pulita.

41- PRIMAL SCREAM “COME AHEAD”

Ritorna dopo 8 anni di silenzio la band di Bobby Gillespie e lo fa con un disco che ha un sacco di funk sulla sua superficie, ma contiene ancora molto punk e granate di protesta nel suo bagagliaio. Arrangiamenti orchestrali, sarabande danzerecce e psichedeliche (c’è David Holmes a dare una mano alle tastiere) e i soliti ingredienti ovvero grooves acidissimi, testi quasi politici, melodie adatte alle feste di magazzino delle 2 di notte o alle ballate dei Rolling Stones. Funk e soul comunque spadroneggiano come mai in carriera.

42- BEJONCE’ “COWBOY CARTER” 

ll disco country di Beyoncé, che non è affatto country. Giselle Knowles usa la musica bianca per antonomasia per farla propria, e idealmente per far proprio di tutte le minoranze quello che è dei suprematisti. L’album dura una vita ed è pieno di robe diverse. Prodotto come sempre in maniera hollywoodiana, è una specie di compendio degli stili classici statunitensi. Un viaggio.

43- ADRIANNE LENKER “BRIGHT FUTURE”

La leader dei Big Thief alla sua sesta prova solista, sforna un’opera di intimità domestica, rarefazioni nella natura, con un folk cantilenante e nudo. Nulla di nuovo per lei, e nemmeno per la casa madre. Ma qui è tutto più essenziale ancora del solito e per certi versi più necessario. Brani fuori dal tempo, buoni per un focolare acceso o un cielo stellato da contemplare.

44- KING HANNAH “BIG SWIMMER”

Si, ok, anche qui il bello è che è roba già sentita. Ma ormai si è capito che il rock è classico no? Quindi questi 50 minuti sono puri anni ’90, con un rock molto urbano, “da strada” e confidenziale al medesimo tempo. È il loro disco migliore e merita di essere tra i prodotti salvati dell’anno. D’altronde gli shoegazer, i trip-hopper, la scena grunge, ognuno è stato venerato e citato a modo suo, e i King Hannah sono gli ultimi a rendergli omaggio.

45- NYLUFER YANYA “MY METHOD ACTOR”

È un album che ha il sapore del lusso quotidiano, una raccolta di canzoni così sicure che sembra siano sempre esistite e Yanya le abbia semplicemente strappate dall’aria per regalarle a voi. Il suo terzo è il suo primo in cui pare davvero essere padrona della scena. I blocchi di battiti percolanti, i licks di chitarra, le sferzate di grunge e le melodie vocali lussureggianti accompagnano i suoi testi. Una raccolta onesta e innovativa che rafforza la sua reputazione di cantautrice stellare.

46- THE SMILE “WALL OF EYES”

Primo dei due dischi targati The Smile usciti nel 2024 per un progetto che va anche oltre ai Radiohead e muove da dove la band di Oxford era arrivata con quel miracolo chiamato “A Moon Shaped Pool” che più passa il tempo più cresce come disco definitivo dell’estetica post qualsiasi cosa. Qui c’è un po’ jazz ma soprattutto (finalmente si può dire) tanto prog, quello più canterburyano.

47- MDOU MOCTAR “FUNERAL FOR JUSTICE”

Registrato al termine di due anni trascorsi in tournée in tutto il mondo dopo l’uscita dello straordinario e per ora inarrivabile “Afrique Victime” del 2021, questo disco cattura il quartetto nigeriano in forma feroce. La musica è più forte, più veloce e più selvaggia. Gli assoli di chitarra sono bruciati dal feedback e i testi sono appassionatamente politici e nulla è trattenuto o attenuato.

48- NICOLAAS JAAR “PIEDRAS 1 / PIEDRAS 2”

Due dischi distinti per un unico progetto, quindi li inseriamo come fossero un solo corpo. Si tratta di una raccolta di brani presenti nello spettacolo andato in scena al Museo della Memoria e dei Diritti Umani di Santiago del Cile tra il 2022-2023 che intreccia la storia coloniale cilena, la dittatura militare e la causa dei palestinesi in una vertiginosa miscela di sonorità astratte e avant pop. La musica che accompagna i testi è impressionistica e in scala di grigi, con esplosioni di rumore a segnare i temi dell’alienazione e dell’identità in divenire quando non vira direttamente verso la sperimentazione cerebrale.

49- DAVID GILMOUR “LUCK AND STRANGE”

Secondo David Gilmour “Luck And Strange” è il suo lavoro migliore dai tempi di “The Dark Side Of The Moon”. Campa cavallo. Però è il suo miglior disco solista ed è già più che qualcosa. In assoluto colpisce la presenza di “Between Two Points” che nel 1999 quando uscì “Seventeen Stars” dei Mongolfier Brothers spiccava già come piccola grande perla. La versione di Gilmour è splendida, cantata dalla figlia Romany e insieme alla title track e a “Scattered” è il miglior brano di un disco molto dignitoso di una leggenda che invecchia molto meglio dell’ex leader paranoico.

50- ELBOW “AUDIO VERTIGO”

Decimo album per la band di Guy Garvey e soci. Le ultime due prove non si potevano dire deludenti ma si respirava una certa stasi. Col nuovo lavoro tornano gli Elbow dei bei tempi. Magari non così eccezionali come sono stati fino almeno a “Take Off And Landing Of Everything” ma brani come “Lover’s Leap” (se pensate a Supper’s Ready vi capiamo), “Very Heaven” e “Her To The Earth” solo loro li sanno fare.

Aprile 2025

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