Bob Dylan nel 2025 arriverà a 84 anni e sembra impossibile. Sarà difficilissimo spiegare davvero chi è stato Dylan alle generazioni che verranno dopo di lui. Non basteranno le sue canzoni, le sue parole, il suo impatto storico. Non basteranno i corsi di laurea, gli innumerevoli saggi che già ora riempiono le accademie e le librerie. Quello che sarà più difficile da spiegare su Bob Dylan sarà la sua incredibile diversità da chiunque. La sua iconoclastia vera, profonda, connaturata, ai limiti della weirdness. Dylan lo si capisce di più nei contorni, in ciò che rimane fuori dai dischi. Lo vedi sul palco anche adesso, a cantare i suoi classici snaturandoli al punto che pochi riconoscono i pezzi, a fare tutto con quel suo unico modo che se ne frega in primis di essere lui quello che è. Un antieroe nato. Come quando si smarcò dai pacifisti nella famosa conferenza stampa del 1965. E i pacifisti pensarono: “ma come? non era il nostro cantore? traditore!”. E del traditore gli avevano dato i duri e puri del folk quando imbracciò gli strumenti elettrici. E ancora si prese da Giuda quando virò country nel 1968 mentre il mondo era immerso nell’attualità del Vietnam o quando pubblicò un disco talmente brutto (“Self Portrait”, 1970, si dice l’abbia fatto apposta) che Grail Marcus di Rolling Stone iniziò la recensione col celeberrimo “Cos’è questa merda?”. Il Dylan ebreo che diventa born again christian e gira il mondo per tre anni suonando solo canzoni nuove che parlano di Cristo e di conversione e lasciando fuori dalla scaletta ogni brano precedente. Il Dylan che litiga con Mark Knopfler che cercava di produrgli un disco perfetto (“Infidels”, 1983) ma con Dylan è impossibile e alla fine rimane fuori anche uno dei più bezzi della carriera (“Blind Willie McTell” ma di capolavori non finiti sui dischi è piena la sua storia). Il Dylan che si crede un crooner e pubblica tre album di cui uno doppio di classici dell’american songbook. Il Dylan che prende uno strameritatissimo Nobel ma manda a ritirarlo Patti Smith perché lui aveva altri impegni, e tutti a offendersi quando lui aveva semplicemente davvero altri impegni e nel “Dylan mondo” è tutto normale sia così. Alla fine per capire Dylan bisognerebbe andare a far la spesa con lui, o due passi in libertà senza essere braccati dai fans, o aiutarlo in un barbecue. Perché questo genio immenso è in realtà un uomo normale che si è sempre sentito più a suo agio nella normalità. Ma se ci sembra ovvio che la gente comune sia cantata da uno come Springsteen, non abbiamo mai accostato Bob Dylan all’everyday man perché i suoi testi sono alieni a questa terra e sono pura e altissima letteratura contemporanea. Ma si deve uscire dall’artista Dylan per capire l’uomo Dylan. E l’uomo Dylan ama la gente normale al punto da aver quasi paura e imbarazzo di fronte a chi non conduce la vita dell’uomo quotidiano. Anche al concerto per Live Aid, mentre tutte le rock star del mondo lanciavano appelli per l’Etiopia, lui sul palco del JFK Stadium di Philadelphia trovò normalissimo invece dire che si, va bene l’Etiopia, ma ci sono i contadini americani in difficoltà a causa dei debiti ipotecari ed è giusto pensare anche a loro. Perché Dylan parla la lingua di Dio ma, proprio come Dio, ama per primi gli uomini comuni.
Essere un uomo comune è vivere una tensione tra il visibile e l’invisibile, tra il concreto e l’astratto. È fare un lavoro che sembra non avere peso, ma che in realtà tiene insieme il tessuto del mondo. Non c’è gloria, non c’è fama, ma c’è una strana forma di significato. Il significato di sapere che ogni giorno, anche senza accorgertene, hai contribuito a far girare gli ingranaggi dell’universo. Eppure c’è un prezzo. La ripetizione logora, la routine diventa una prigione. A volte il benzinaio si chiede cosa succederebbe se smettesse di presentarsi al lavoro. Il meccanico, mentre stringe l’ennesima vite, si domanda se un giorno la sua vita cambierà. E il tagliaerba, solo nel suo prato, sogna un posto dove l’erba non cresce mai. Ma queste domande rimangono sospese, come fumo che si dissolve nell’aria. Perché alla fine, continuano a lavorare. Continuano a essere il benzinaio, il meccanico, il tagliaerba. Non perché vogliano, ma perché non sanno fare altro. Forse è questa la loro forza, o forse la loro condanna. Essere un uomo comune significa accettare il peso della normalità, portarlo con dignità, e sperare che da qualche parte, in mezzo a tutto questo, ci sia una forma di redenzione. Essere un uomo comune significa fare il proprio lavoro senza aspettarsi applausi. Non c’è gloria nel cambiare una candela d’accensione, né nel riempire un serbatoio di benzina. Non c’è nessuno a guardarti mentre cammini avanti e indietro su un prato, con il motore che romba e l’odore dell’erba tagliata che ti entra nei polmoni. Eppure ogni giorno si alza, accende la luce, si mette al lavoro. Le sue mani raccontano la sua storia meglio di qualsiasi altra cosa. Le dita sono forti, segnate da tagli vecchi e nuovi. Unghie sempre sporche, pelle dura come cuoio. Quando stringe una vite o afferra una leva, lo fa con una sicurezza che viene solo da anni di esperienza. Non è un filosofo. Non ha bisogno di riflettere sul perché delle cose. Sa come funzionano i motori, sa come tagliare l’erba, sa come fare quello che serve. È sufficiente. A volte, quando la giornata è quasi finita e il sole comincia a calare, si ferma per un momento. Si siede su una cassa di birra vuota o sul bordo del marciapiede. Si asciuga il sudore dalla fronte con il dorso della mano. Guarda il cielo diventare rosa e arancione. Non pensa molto in quei momenti, ma sente. Sente il peso del giorno nelle spalle e nelle braccia, e sente anche qualcosa di più leggero, qualcosa di buono. Ha lavorato. Ha fatto quello che doveva fare. E questo basta. Essere un uomo comune significa essere invisibile. La gente non si accorge di lui fino a quando non ne ha bisogno. La macchina si rompe, il prato è incolto, il serbatoio è vuoto. Solo allora lo cercano. Ma non lo ringraziano mai veramente. Non importa. Non si aspetta ringraziamenti. Sa che questo è il suo posto nel mondo.
E così un giorno chiesero a Bob Dylan chi lui ammirasse davvero. Chi era il suo Bon Dylan personale, il suo mito. E lui si prese una lunga pausa. Fece le solite smorfie goffe. Poi piano piano iniziò a parlare e disse: “Ho sempre cercato di essere un individuo, uno con un suo punto di vista. Se ho provato a fare qualcosa, è probabilmente questa, a far capire a qualcuno che è possibile fare l’impossibile. E questo è tutto. Se ho mai avuto qualcosa da dire a qualcuno è questa: tu puoi fare l’impossibile. Tutto è possibile. È così. Nient’altro. Chi c’è da ammirare oggi? Un qualche leader mondiale? E chi? In realtà potrei dire di ammirare parecchie persone. C’è un tizio che lavora in una stazione di servizio di Los Angeles – un vecchio; e quel tizio io lo ammiro davvero. Cos’ha fatto? Una volta mi ha dato una mano a riparare il carburatore della mia auto…”