In scena al Teatro Comunale di Thiene in questi giorni (la prima ieri, oggi e domani altre due repliche) c’è una versione del capolavoro di Italo Svevo che senza snaturarlo (anzi, l’esatto opposto) lo porta nel presente dandogli rinnovato valore storico. La Coscienza di Zeno è un romanzo spartiacque per la letteratura italiana. Segna il passaggio dall’ottocento e la ricerca dell’oggettività al novecento improntato sul soggettivo e sulla crisi dell’uomo. La frattura tra la coscienza della materia e quella dello spirito. Un romanzo meraviglioso di cui non si parla mai abbastanza. Svevo era lontanissimo dall’idea dannunziana di artista. Hector Schmitz (il suo vero nome) era un uomo “normale” con un lavoro normale e una sconfinata passione per l’uomo. Quell’uomo in frantumi post-romanticismo che vive la modernità di inizio secolo. Italo Svevo (nome d’arte che spiega il suo biculturalismo nella Trieste austriaca) medita Freud, conosce Schopenhauer, il male del mondo, capisce che il tempo di Bergson, quello interiore, è il nuovo tempo esistenziale.

Tutto questo lo si ritrova nei temi e nelle forme della Coscienza di Zeno. Il vizio (quello del fumo in particolare ma anche la passione per le donne), il conflitto con il padre, il costante desiderio di trasgressioni, Zeno Cosini contiene profondità e ironia surreale, una profonda complessità segnata sempre e comunque da un lacerante senso di inadeguatezza e di colpa. La malattia di Zeno Cosini è quella di non saper stare al mondo, di essere inetti. Ciò porta a mentirsi continuamente fino a dirsi guarito mentre in realtà sogna una fine del mondo deflagrante nel memorabile finale. Di fatto, Zeno (un po’ come il protagonista di 8 & 1/2 di Fellini) capisce alla fine che c’è più vita nelle sue insicurezze e nel suo cambiare di continuo rispetto alle certezze salde e morali delle persone che lo circondano.

La nevrosi del protagonista del romanzo più problematico e affascinante di Svevo è difficilissima da portare su un palco. In passato è stata sempre interpretata da grandi attori, come Renzo Montagnani, Giulio Bosetti, Alberto Lionello che fu anche protagonista dello sceneggiato Rai e, nella successiva edizione televisiva, Johnny Dorelli. Questa particolare versione è avvincente per più di un motivo. Innanzitutto l’interprete principale, Alessandro Haber, che decide di approcciarsi a Zeno in un modo molto personale, haberiano. Il grande attore bolognese interpreta lo Zeno post psicanalisi, lo Zeno maturo, per non dire anziano. Quello che guarda alla sua storia col distacco della saggezza, e non a caso dialoga apertamente col suo sé stesso giovane interpretato da Francesco Godina. Lo scarto rispetto ad una trasposizione “classica” sta appunto nello sdoppiamento (che diventa triplice quando compare la “coscienza” stessa nei panni del suggeritore) del protagonista che mostra il suo percorso di una vita che diventa simbolica. Quando Haber sfonda la quarta parete e per due volte parla di aneddoti legati alla propria vita, dei suoi genitori, di infanzia a Tel Aviv (scelta ovviamente non casuale) per dire che le nostre vite, tutte, sono comunque universali e originali allo stesso tempo, lì si mostra il nodo gordiano di questo spettacolo: costringere la crisi umana ad una riflessione. La messa in scena poi è la parte vincente in assoluto. Per un’ora e quarantacinque minuti, si è immersi in uno scenario in bianco e nero in cui le scelte dei costumi, dei video, degli stacchetti danzati, danno forte l’idea di introspezione e analisi. La riduzione del testo lascia invece qualche perplessità, perché i salti interni sono pesanti e più di un senso viene o tralasciato o lasciato per scontato. In questo modo si perde un po’ di trama necessaria. Il rapporto col padre, il fondamentale e lungo percorso con il terapeuta, le serate triestine, questo e molto altro si perde. La Coscienza di Zeno è un romanzo che andrebbe letto e riletto obbligatoriamente, e se questo spettacolo dovesse lasciare domande senza risposte a chi ancora non l’ha fatto, allora avrà avuto un pregio in più.

