7 OTTOBRE 2024. UN ANNO DAL POGROM INFAME

Un anno. Dodici mesi che hanno cambiato probabilmente per sempre un pezzo di mondo e non solo. Un anno da quel giorno di infamia, da quell’evento animale e mostruoso, dal più grande dramma vissuto dagli ebrei dopo la Shoah. E a distanza di un anno, con una devastante guerra in corso su più fronti, Israele è diventato l’emblema del male per quella parte di opinione pubblica che si autodefinisce antifascista ma che è terribilmente confusa nel migliore dei casi, quando non direttamente mossa da un terzomondismo anticapitalista e da un antisemitismo acclarato. La manifestazione di Roma non era per chiedere il cessate il fuoco, su cui già si potrebbero e si dovrebbero fare dei ragionamenti molto più complessi, ma era palesemente ed apertamente contro Israele, in cui si chiedeva lo “smantellamento di Israele, in quanto progetto coloniale di insediamento basato sulla pulizia etnica e sul genocidio sistematico del popolo palestinese”. Pochi giorni prima in un’altra manifestazione simile, faceva orrenda mostra di sé un cartellone contro Liliana Segre “agente sionista”. Ma per Roberto Morassut del PD, la manifestazione di Roma era comprensibile. Nel frattempo il silenzio del segretario Schlein è imbarazzante visto che queste sfilate sono in tutto e per tutto pro Hamas, non pro Palestina, e allora, come giustamente scrive Mattia Feltri su La Stampa, “è la piattaforma di Hamas e non sono sicuro sia meglio di un braccio teso di Casapound”. Com’è possibile che gente che si definisce di sinistra, vicino agli ultimi, affermi i diritti dei palestinesi sostenendo che il 7 ottobre è stato un gesto di resistenza? Tutto questo è politicamente ed eticamente inaccettabile: Hamas è fogna criminale. Cosa sta succedendo? Christian Rocca chiede: “agli antifascisti che considerano legittimo il diritto di manifestare anche per chi esalta i terroristi di Hamas: direste lo stesso se un gruppo di fascisti andasse in piazza a difendere il nazismo, rivendicando il diritto a sterminare i nemici della razza ariana?”

Bandiere di Hezbollah e Iran alla manifestazione romana
Roma, 5 ottobre

Appare evidente come questo pesantissimo ritorno di antisemitismo non aspettasse altro che un evento come quello del 7 ottobre. Esattamente come le forze di Hamas volevano la reazione di Israele, così l’internazionale antisionista e antisemita ha versato dapprima poche lacrime di circostanza per poi immediatamente urlare odio contro i “coloni occidentali” che rispondevano all’ennesima dichiarazione di guerra da parte dei terroristi islamici. La questione è ideologica, visto che non può essere storica, anche perché se si studiasse davvero la storia si avrebbero idee diverse. Quante falsità si dicono su Israele. Si dice che lo Stato di Israele è nato come sorta di “compensazione” dell’occidente per i 6 milioni di ebrei uccisi dal nazismo, il tutto ai danni delle popolazioni arabe che risiedevano in quelle terre “da sempre”. Ma è falso. La Risoluzione 181 non è la benevola dichiarazione che ha fatto nascere lo Stato d’Israele, ma il risultato della decurtazione di una parte consistente di terra che già sarebbe dovuta appartenere, de jure, allo Stato ebraico dal 1922, data in cui la Gran Bretagna operò la prima partizione del territorio mandatario. Nel 1919 la Società della Nazioni diede mandato ai britannici di governare la regione e la Risoluzione 181 del 1947 si renderà necessaria soltanto a causa del fallimento inglese nell’applicazione del mandato che chiedeva un particolare impegno per realizzare la costituzione di una “casa nazionale ebraica”. Il tutto legittimato dal profondo legame storico e identitario esistente da sempre tra il popolo ebraico e la Terra d’Israele. Un’altra bugia è che quella terra prima fosse chiamata “Palestina”. Si è addirittura arrivati a dire che Gesù fosse un palestinese tralasciando il fatto che il termine “palestinese” compare per la prima volta attorno al 135 d.c. con l’imperatore Adriano con l’obiettivo di cancellare il carattere ebraico della Terra d’Israele. Di fatto Israele è sinonimo dell’identità ebraica. Il termine è da sempre utilizzato per riferirsi sia alla comunità che alla terra: lo ritroviamo addirittura nella stele di Merneptah, figlio di Ramsete II. Siamo alla fine del XIII secolo a.C. e Israele viene presentato come popolo residente a Canaan, a dimostrazione di come nei millenni sia sempre stata ben chiara l’importanza del territorio nell’autoidentificazione del popolo ebraico. E se le vivide descrizioni della Terra d’Israele, presenti nella Bibbia e nel Talmud, hanno permesso a quanti erano dispersi e perseguitati di restare aggrappati al sogno del ritorno in patria; i geografi hanno reso quel sogno più concreto.

Il 29 novembre 1947 l’ONU vota un piano di spartizione tra uno Stato ebraico ed uno arabo, proponendo uno statuto speciale per Gerusalemme: viene accettato dal movimento sionista e rifiutato dai palestinesi che muovono subito guerra ad Israele ed il motivo era allora lo stesso di oggi: cancellarne l’esistenza. Un popolo che vive in uno stato circondato da paesi che vogliono ammazzarti, ogni giorno che Dio manda in terra, con famiglie costrette a mandare i figli a scuola in autobus separati perché se succede qualcosa almeno non accada a tutti, con la paura come presenza costante, segnati da uno stigma vergognoso e meschino. Fa molto ridere (per non dire altro) sentir dire che Hamas ha pur sempre vinto delle elezioni democratiche. Hamas è un sistema criminale, il suo obiettivo è liberare la Palestina, la sua carta costitutiva afferma che “non esiste soluzione alla questione palestinese se non nella guerra santa” prefigurando l’esistenza di uno Stato palestinese in assenza di quello israeliano. La storia di Israele è sempre stata questa, sempre si è dovuto confrontare con chi lo vuole eliminare “dal fiume al mare”. L’accusa più comune che viene mossa ad Israele riguarda le terre occupate. La storia ci spiega come Israele si sia sempre dovuta difendere e di come l’occupazione sia nata da questo. Si dice che Israele tenga le persone palestinesi nelle terre occupate in una condizione contraria a qualunque criterio di diritto, giustizia e civiltà (e questo lo pensano anche molti cittadini israeliani), e che ciò intacchi gravemente la definizione di “democrazia”. Il punto è che Israele lo fa perché è l’unico modo per garantire la propria sicurezza e dei propri abitanti. Se oggi Israele scegliesse di rimuovere questa condizione (o anche alcune sue quote) succederebbe quello che è successo il 7 ottobre del 2023 moltiplicato per mille, e la fine di Israele e delle sue persone.

Folle vedere bandiere di regimi nazisti, anti umani, contro ogni diritto, sventolare in piazza. Folle sentire che la brigata ebraica non può sfilare durante il 25 aprile. Folle che nei quartieri ebraici in Europa sia tornata la paura e venga richiesta la forza militare per difesa. Folle non avere chiaro, netto, deciso in testa e nelle viscere che Hamas, Hezbollah, Jaljalat, Fath al-Islam, Huthi, Stato Islamico, Al-Qaida, sono il male supremo e assoluto e debbano essere cancellati dalla faccia della terra. Folle non capire dopo la tragedia del nazifascismo e la seconda guerra mondiale quanto la democrazia liberale debba essere difesa a prescindere dagli enormi difetti che ancora ci sono. Folle non avere chiaro quel che ha espresso perfettamente Benny Gantz sul New York Times di oggi: “Israele, insieme all’Ucraina e a Taiwan, è un avamposto democratico minacciato da un asse di sovversione. Se uno cade, ne seguirà un effetto domino e le nazioni catturate nel mezzo dovranno scegliere da che parte stare”. Folle che non si capisca che il minimo possibile è dividere il popolo dal governo e quindi non gettare le colpe di Bibi Netanyahu su tutti gli ebrei. C’è un libro importantissimo uscito da poco del filosofo Bernard-Henry Lévy che si chiama “Solitudine di Israele” (ed. La Nave di Teseo) che sarebbe il caso fosse letto da tutti. C’è un nuovo ordine mondiale: Iran, Russia, Cina, Turchia, Jihad mondiale, i pianeti neri che si allineano non solo sul fronte ucraino, ma contro Israele, con Hamas, la spada, esaltati dalla guerra contro le democrazie. Lévy entra in profondità in questo quadro. Ma sono altri eventi che escono vibranti dalle sue considerazioni. Primo, il negazionismo che pochi giorni dopo, nonostante le cronache, le immagini, le testimonianze dei sopravvissuti, ha avvolto il 7 ottobre, “propaganda” al servizio del “genocidio” dicevano. Le donne non volevano le israeliane alle loro manifestazioni. E i 240 ostaggi presto fu come non esistessero, la Croce Rossa non se ne interessa tuttora, le Ong tanto meno, anzi peggio. E qui siamo a un’altra caratteristica fondamentale di questo conflitto alla rovescia, ricorda Levy, i «sì, ma», dopo aver contestato le accuse di occupazione (Guterres non sapeva che Gaza era stata svuotata da ogni presenza ebraica nel 2005?), o l’apartheid (qualcuno può dire al mondo che due milioni di cittadini israeliani sono arabi e fanno anche i sindaci, i giudici, i deputati, i medici, i prof universitari?).

Poi c’è Pierluigi Battista col suo nuovissimo “La nuova caccia all’ebreo” (ed. LiberiLibri) in cui spiega con profonda amarezza e rabbia come “la cultura democratica ha abdicato al suo ruolo, accettando passivamente lo scatenamento di una nuova caccia all’ebreo”. La cultura democratica di fronte a tutto ciò ha taciuto e continua a tacere, a non avere una reazione forte e l’autore si chiede, con grande preoccupazione, se ciò non voglia dire che l’antisemitismo, camuffato da antisionismo, non sia stato sdoganato: “Non eravamo uniti dal “mai più” declamato dai sepolcri imbiancati del Giorno della Memoria che oramai è soltanto un giorno senza più memoria?”. Israele non ha voluto questa guerra, che ora deve vincere, la responsabilità delle decine di migliaia di morti palestinesi non è solo di Israele ma anche di chi ha usato, usa, i civili, i bambini, come scudi umani volendo il maggior numero di vittime, di martiri, da sparare in faccia al mondo. Certo è che quanto sta accadendo a Gaza è terribile, straziante, disperato. Probabilmente diventerà un altro simbolo della tragedia della guerra nei secoli. Come Dresda, come Hiroshima. Ma ad un anno da quel sabato terribile, non possiamo dimenticarci di tutto quello che il 7 ottobre rappresenta. Ad un anno da quel sabato terribile, la paura rimane, lo sgomento pure e purtroppo l’ottimismo non ha ancora trovato una strada.

Novembre 2025

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