LUIGI MENEGHELLO E LA SCUOLA

Oggi riaprono le scuole. Vogliamo dedicare a tutti gli studenti questo pezzo preso dal sito “luigimeneghello.org” e da noi editato. Buon anno scolastico a tutti!

«Noi siamo vasi di fiori» si sente dire un giorno il professor Meneghello da uno studente, «voi dovreste coltivarci delicatamente, farci fiorire» . Da questa affermazione di un giovane allievo nasce il titolo di Fiori italiani, la storia di un’esperienza scolastica nell’Italia degli anni trenta. S., il protagonista, come l’autore, a dieci anni lascia il paese natale e va a Vicenza per continuare gli studi. Raccontando gli anni della scuola, dalla primaria all’Università, nei propri libri Meneghello ripercorre le tappe di una formazione intellettuale e sociale in una delle tante realtà provinciali segnate dall’avvento del fascismo. Dedica molte pagine alle prime esperienze nelle classi elementari, perché in questo periodo il protagonista si trova a dover integrare l’universo dialettale della famiglia e della cultura paesana con l’esercizio delle facoltà intellettuali, e lo sviluppo della personalità, attraverso un nuovo linguaggio, le nuove regole della lingua italiana. Il luogo deputato all’istruzione e all’apprendimento è anche il primo ambiente istituzionale incontrato dal protagonista nel proprio percorso di formazione. La scuola di questi anni assorbe e riproduce nel contesto didattico pratiche e direttive del regime fascista. La formazione intellettuale del protagonista viene così a coincidere con l’attraversamento di un mondo che, rispecchiando l’ideologia dominante, tende a imporre ai giovani studenti un modello culturale indiscutibile e retorico. Raccontare gli anni scolastici, dall’infanzia all’adolescenza, fino all’università, è dunque per lo scrittore anche l’occasione di indagare, testimoniando attraverso la propria esperienza un preciso momento della cultura italiana, le complesse dinamiche di un’educazione.

la piazza di Malo

In Fiori italiani, dove si mescolano il romanzo, l’autobiografia e il saggio, attraverso la rielaborazione singolare di un’esperienza vissuta, Meneghello intende rispondere ad un interrogativo: «Che cos’è un’educazione?». Questa domanda lo accompagna per tanti anni, a suo dire fin dai tempi della guerra. L’autore racconta di essersi la prima volta interrogato in merito al significato dell’educazione nel 1944, appena scampato ad un rastrellamento in Valsugana. E la questione si ripresenta vividamente nel 1964, mentre sta raccontando l’avventura della resistenza ne I piccoli maestri. Lo scrittore affronta il viaggio attraverso questi anni difficili utilizzando il proprio tipico equipaggiamento letterario: l’ironia, lo scherzo, il paradosso e la trasfigurazione mitica delle cose e degli avvenimenti. Ma trattando la specifica materia scolastica l’autore aggiunge un elemento, il sarcasmo, utilizzato per criticare lucidamente le storture e le assurdità della cultura fascista, stemperando al contempo il dolore in una nota acre ma non tragica, semmai tragicomica.

Per Meneghello, come per tutti i piccoli coetanei cresciuti in un piccolo ambiente di provincia, abituati ad un mondo pressoché unicamente improntato all’oralità, l’entrata nel mondo scolastico si caratterizza innanzitutto per l’incontro con la lingua scritta. Lo scrittore ricorda così le difficoltà di un nuovo modo di pensare:

L’intero tessuto della lingua era disseminato di difficoltà […]. Per buona parte della mia vita adulta ho creduto che un vicentino bravo imparasse a scrivere nel giro di qualche settimana nell’autunno del suo primo anno di scuola. Ma invece ci voleva ben altro. Intanto è una cosa che t’insegnano formalmente, mentre nessuno ti aveva insegnato formalmente a parlare, e questa è già di per sé una novità grossa. […] A voce, pensare una cosa e saperla dire fa tutt’uno: sembra che non ci sia esecuzione, la parola si eseguisce da sé. Per iscritto, l’esecuzione è sudata e problematica, il risultato più lapidario e insieme più legnoso.

L’ambientazione di Libera nos a malo, in cui Meneghello racconta le prime esperienze scolastiche, è una realtà di montagna, un piccolo centro rurale con fenomeni di migrazioni stagionali per insufficienza di lavoro e di guadagno. Le dinamiche dell’economia familiare spesso coinvolgono con delle piccole responsabilità anche i bambini. In questi luoghi la cultura del fascismo non attecchisce nelle forme del fanatismo, semplicemente si impone come stato politico attuale delle cose:

Era un fatto importante. Appena si cominciava ad avere una certa coscienza della realtà, il fascismo era già parte della nostra vita, era inscindibile dal resto della vita italiana: c’era un re, un duce, un esercito, c’erano i carabinieri e c’erano i fascisti…c’era il corteo e si marciava con i gagliardetti… Avevo un bellissimo libro di testo, Il balilla Vittorio, per la quinta elementare, fine anni Venti primi anni Trenta, che era l’espressione di un fascismo moderato, in quanto ormai il fascismo aveva vinto, la vita italiana era quella.

A scuola, ambiente istituzionale, risultano invece più stucchevoli alcuni atteggiamenti retorici entrati nella didattica: i piccoli allievi ripetono oralmente e per iscritto frasi e formule ideologiche, sono educati a mantenere rigore e distacco, ad esempio evitando di esporre questioni troppo personali. L’autore ricorda con sarcasmo queste attività celebrative come un clima grigio, che talora si diffonde, rendendo malsano un ambiente altrimenti ricco di scoperte ed incontri. La prima e indimenticabile maestra Prospera premia i meritevoli «con le mentine di zucchero colorato» e punisce gli indisciplinati «con piccoli colpi di bacchetta sulle nocche delle mani». Insegnante carismatica, in linea con la fermezza educativa del periodo non esita a mettere i recidivi «in ginocchio dietro la tavola nera sui chicchi di sorgo». Don Tarcisio è invece il maestro del quarto e del quinto anno, uomo che unisce la spiritualità alle pratiche mondane, colto e raffinato, di cui l’autore stila un breve ma significativo ritratto:

Il mio maestro di quarta e quinta, don Tarcisio […] era, si potrebbe dire, un prete edonista, viaggiava, era colto, aveva scritto anche un libretto intitolato Jerusalem! […] un uomo di gusto, fine. E non potrei nemmeno dire che fosse un vero fascista, ma un nazionalista sicuramente si. Era lustro, grasso, colto, cortese; aveva capelli non più folti ma ancora scuri che pettinava e lisciava con cura. Non era un prete paesano, rappresentava tra noi una civiltà urbanizzata e modestamente raffinata. […] Si sentiva in lui la vena bonaria, tollerante, colta, di un cattolicesimo quietamente modernizzato. D’estate andava ai bagni di mare sulla costa toscana; in paese alla sera andava talvolta in visita dal conte in coppia col serafico don Antonio che faceva anche lui il maestro.

In Meneghello la classe è una specie di microcosmo che ripropone la realtà del paese, il protagonista ne osserva curioso le differenze sociali: mentre la realtà è un complesso di fenomeni senza soluzione di continuità, lo scrittore mostra come la mentalità culturale del tempo attui forzatamente una separazione tra le idee e la vita. Il comportamento e l’esteriorità, l’abbigliamento come sinonimo di appartenenza a una determinata classe sociale, sono fenomeni che rispondono all’allineamento della cultura dominante con i canoni del regime; lo sguardo libero del bambino contrasta con quello dell’adulto, e le dinamiche sociali del mondo scolastico ci offrono uno spaccato di vita autentico:

Noi li volevamo corti e larghi […] e loro sobillati da madri e zie ce li facevano lunghi e stretti. Li chiamavano stizzosamente i tubi. Non andavano oltre il ginocchio, naturalmente, perché quello era uno dei pochi distintivi di classe, la braca a mezza gamba dei popolani scalzi; ma fino a un dito dal ginocchio purtroppo sì.

In Fiori italiani Meneghello riesce a dare una definizione solo negativa di educazione, raccontando la diseducazione ricevuta a scuola, nell’ultima parte del libro, descrivendo in tono appassionato la figura di Antonio Giuriolo, l’autore tratta dell’educazione in termini nuovi, costruttivi, in una dimensione che contempla sia l’ideale che il concreto. Il maestro vero è quello incontrato fuori dalle aule. Meneghello crede nell’insegnamento e nel valore carismatico di ciò che può dare l’incontro e il confronto con maestri dalla personalità straordinaria «animati da forze miracolose», come appunto quella di Antonio:

La prima volta che S. si trovò con lui da solo, Antonio stava andando alla stazione […]. Frequentando Antonio si cambiava a vista d’occhio: di mese in mese ci si trovava ad aver abbandonato questo o quel punto delle dottrine o credenze correnti, e una volta passati sul terreno della critica […] non ci si poteva più fermare. Antonio ci lasciava cambiare per conto nostro, senza intervenire a sollecitarci dall’esterno. […] Antonio non separava ciò che studiava e pensava per conto proprio da ciò che insegnava a noi. Era proprio questa la forza del suo insegnamento: non c’era tono didascalico, non svolgeva un programma. Parlava delle cose a cui si stava interessando senza proporsi di dimostrare qualcosa, o di convincerci. Ci faceva assistere al suo rapporto vivo con esse, ciò che ammirava, ciò che detestava. Non mi pare che si curasse molto di accertarsi in qualche modo, come si farebbe a scuola, che capivamo o imparavamo; e neanche di farci arrivare da noi stessi, quasi a titolo di esercizio maieutico, con lo storto passo del discente, a questa o quella parte della verità. Non c’era tempo per questo. Era un’operazione maieutica incomparabilmente più sconvolgente. Ti trovavi di fronte a un mondo di idee oggettivate, che parevano tuttavia strappate dal tuo interno. Le avevi davanti, toccava a te arrangiarti.

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