La decisione della Giunta del sindaco Possamai di chiudere con un recinto il lato occidentale di Campo Marzo non è assolutamente una idea nuova: attorno all’Anno Mille era già recintato e non con una cancellata ma con un muro. Oggi la perimetrazione ha l’obbiettivo di tenere fuori gli spacciatori e gli sbandati, allora era di precluderlo ai lupi, che scorrazzavano attorno alla città.
Campo Marzo (e non Marzio, cioè dedicato a Marte dio della guerra), nome trovato per la prima volta in un atto del 983, è il più importante e antico monumento naturalistico di Vicenza. È stato “possessione” della comunità da sempre, anche se i vescovi a cavallo del primo millennio lo donarono prima ai monaci benedettini di San Felice e poi alle consorelle di San Pietro e, all’inizio del Quattrocento, altrettanto fecero i Visconti a favore dei Dal Verme (che lo restituirono ben presto per togliersi di dosso l’odio dei vicentini per l’ingiusta donazione). In venti secoli è stato utilizzato in mille modi, dai Romani come piazza d’armi (ma non ci sono prove) e, poi, come pascolo, zona di mercati e fiere, cimitero, lazzaretto, accampamento militare e, in tempi moderni, come cavallerizza, ippodromo, parco e luna park. Ai suoi margini sono stati costruiti un teatro, la stazione dei tram e quella dei treni, la linea ferroviaria Milano-Venezia.
Nell’antichità, quando la città era sotto attacco, era allagato per proteggere le mura. Ciò era possibile perchè Campo Marzo è stato fino al Seicento un’area acquitrinosa e paludosa, attraversata da fossi e scoli e, nella parte ovest, anche depressa (le “basse di Campomarzo” sono state colmate all’inizio del secolo scorso) e, per di più, due lati erano affiancati da corsi d’acqua: la Seriola a est e, a sud, il Retrone, che vi penetrava con un’ansa molto più pronunciata rispetto al corso attuale. Da questa caratteristica morfologica deriva con maggiore probabilità l’etimologia: campo “marso”, marcio. L’area occupata da Campo Marzo era vastissima, pari a 80 campi, ed era perimetrata, oltre che dai due fiumi, dalle proprietà del Convento di San Felice a ponente e dalla via Postumia a nord. L’accesso dalla città era uno solo, dalla porta Feliciana (che indirizzava il percorso verso Verona), poi sostituita dalla adiacente porta del Castello. Extra moenia, sulla sinistra e rivolto a sud, c’era un arco che, nel 1608, fu abbattuto per dar posto al monumentale arco del Revese (quello smontato nel 1938 per far passare il corteo del Duce e mai ricostruito). Fino al XVII secolo Campo Marzo è stato un territorio unico e indiviso. La sua prima trasformazione da area prativa (il suo nome popolare nel Basso Medioevo era “guisega”, corruzione dialettale di “wisega”, dal tedesco wiese, prato) risale all’inizio del Trecento, quando fu decorato con alberi in conseguenza dell’insediamento di mercati e fiere.
Una pesante decurtazione Campo Marzo la subì a metà dell’Ottocento con la costruzione della Ferdinandea, la linea ferroviaria voluta dagli Asburgo per collegare le due capitali del Lombardo-Veneto. L’infelice scelta, che tuttora penalizza Vicenza, fece passare i binari a sud della città e a ridosso delle falde di Monte Berico, occupando così una fetta longitudinale di Campo Marzo e separandolo definitivamente dal Retrone e dal colle. Un altro insediamento pernicioso fu, nel Novecento, quello delle Ferrotranvie Vicentine, che si mangiarono quasi tutto il lato nord del parco con stazione, pensiline, officine e rimesse, confinando con il Foro Boario, addossato al complesso di San Felice. Non solo, perchè, in diverse riprese, Campo Marzo fu spezzato da una importante rete viaria: un viale che si dipartiva dalla porta del Revese verso sud, poi prolungato fino alla stazione ferroviaria, e l’altro perpendicolare che congiungeva il primo con il nuovo ponte di santa Libera per connettersi al percorso verso il Santuario di Monte Berico tramite i Portici. Il vecchio Campo “marso” diventava un’altra cosa, il più grande parco pubblico della città, amato e apprezzato dai vicentini e collegato alle nuove tradizioni e ai nuovi utilizzi.
Un ultimo vulnus è stata la sostituzione dei maestosi platani, piantati dopo la Guerra per rimpiazzare quelli abbattuti dai bombardamenti e in gran parte malati, con alberi più giovani e di minor portata, dopo pochi anni sostituiti con bagolari che, fra qualche decennio, non dovrebbero far rimpiangere i vecchi platani (si veda nel vicino Giardino Salvi Valmarana le dimensioni di alcuni esemplari centenari).
UNA NUOVA FORMA DI COLONIALISMO
Dalla storia abbiamo imparato che le “colonie” nell’antichità erano un insieme di cittadini di uno Stato che si stabilivano in