Omosessuale. Un’etichetta. Dietro, mille storie diverse. Consapevoli. Inconsapevoli. Piene. Vuote. Degne. Indegne. Esiste un minimo comune denominatore?
La domanda interessa solo chi intende vivere pienamente. Per farlo è necessario conoscere. Serve affondare le radici in quella che era la vita dei nostri “padri omosessuali”. Di chi ha compiuto la battaglia per la dignità e per una vita libera di ogni persona che ami una persona del proprio genere.
E questi uomini, queste donne, pochi decenni fa, hanno vissuto nel proprio essere il vuoto di una vita da diversi quando volevano, in moltissimi casi, solo una vita normale. Erano gli anni ‘80, quelli in cui lo stigma sociale nei confronti degli omosessuali iniziava vagamente a scemare. Allo stesso tempo cresceva uno stigma sanitario ben più drammatico che isolava e bloccava un’intera comunità: l’irrompere dell’AIDS, una malattia che colpiva prima gli emarginati. Un’intera comunità, quella omosessuale (per lo più maschile) che, per la prima volta era obbligata a sentirsi tale.
Noi omosessuali nati in quel decennio, noi omosessuali nati negli anni ‘80, godiamo delle loro battaglie. Me ne resi conto già a 17 anni, nelle prime azioni per i diritti lgbt a scuola, nella politica, nelle istituzioni, con gli amici. Loro avevano aperto una strada, con la testimonianza ma soprattutto con le proprie vite. Martiri che avevano osato sfidare l’idea di famiglia. Martiri che, nel migliore dei casi, hanno vissuto una vita da emarginati e da esiliati. Martiri travolti dalla malattia.
Ma torniamo a noi, omosessuali degli anni ‘80. Molti di noi hanno potuto scegliere. E abbiamo scelto, in grandi quantità, la vita piccolo borghese. Di coppia, familiare, tradizionale, speculare a quanto vive una coppia di nostri coetanei eterosessuali. Ci godiamo i vantaggi di questa vita. Ma ci siamo immersi anche nei suoi svantaggi, nei suoi riti, nelle sue consuetudini, nelle sue nevrosi.
La normalizzazione dell’omosessualità è una meraviglia. Ricordo con nitidezza quando alla fine del Congresso di Arcigay del 2007 scendemmo in Piazza Duomo a Milano con uno slogan: “siamo famiglie”.
Uno slogan di rivoluzionaria normalità. Uno slogan che è diventata realtà e rende le parole di uno di questi martiri della nostra libertà assolutamente superate. Pier Vittorio Tondelli, in un libro meraviglioso in grandi parti autobiografico che un caro amico mi ha consigliato e che non ho capito perchè non avevo letto prima di oggi, ci racconta, mentre parla del compagno morente del protagonista: “Lui non ha sposato Thomas, non ha avuto figli con lui, nessuno dei due porta per l’anagrafe il nome dell’altro. Eppure per oltre tre anni si sono amati con passione, hanno vissuto assieme in giro per l’Europa. Si sono strapazzati, si sono azzuffati, anche odiati. Si sono amati. Ma è come se improvvisamente , accanto a quel letto d’agonia, Leo si rendesse conto di aver vissuto non una grande storia d’amore, ma una piccola avventura di collegio”.
Oggi non corriamo più il rischio di quella solitudine terribile che è il non essere riconosciuti dalla società. Oggi abbiamo l’opzione di essere famiglie, con tutti i pro e i contro. E se una generazione ci ha regalato questa opzione, va ricordata e glorificata. Martiri per i figli che non hanno avuto. Padri della normalizzazione.
