Il riformismo in Italia

di Giuliano Parodi, filosofo e politologo

Si definiscono riformisti, per via della definitiva rinuncia alla rivoluzione socialista, mentre quelli di destra, che hanno esordito alla guida del paese, hanno preteso di cambiarlo radicalmente, dichiarandosi a loro volta riformisti o riformatori. Ormai da tempo, dunque, da termine esecrato del vocabolario marxista, il riformismo sembra patire il destino opposto: fatto proprio dalla destra come dalla sinistra, rischia di annacquarsi in “una notte in cui tutte le vacche sono nere” sino al punto di perdere la sua ragione semantica. Prima esecrato, quindi abusato, il riformismo soffre ugualmente della strumentalizzazione uguale e opposta proveniente da una politica e da un pensiero da sempre lontani dalla cultura riformista, appartenente invece ad una pattuglia fortemente minoritaria nella storia italiana, sempre presente ma mai
significativa per le sorti del nostro paese. A riprova di ciò il riformismo italiano ha sempre stentato la vita nei ritagli pensati e consentiti dalle forze politiche maggiori, che riformistiche non erano, sfibrandosi in politiche di fiancheggiamento ed esaurendosi in percorsi privi di respiro strategico.
Le origini del riformismo sono profondamente radicate nell’empirismo filosofico, una corrente che guarda alla realtà senza costringerla entro gabbie interpretative, mantenendosi sempre disponibile alle correzioni di rotta; in questo modo tale categoria politica non si dichiara mai portatrice di una verità che non sia immediatamente riscontrabile, né mai ritiene di possederla per intero o, tanto meno, per sempre. Volendo scomodare Socrate si potrebbe sostenere che la verità, nella sua mutevolezza, possa solo essere inseguita, mai catturata e posseduta ma solo colta temporaneamente e per approssimazione. È per questo motivo che il riformismo crede fermamente nell’alternanza di governo e non è quindi scorporabile da una cornice liberaldemocratica pienamente realizzata. L’alternanza è un valore assodato per la cultura riformista sia perché si ritiene che nessun partito sia o debba essere indispensabile (partito-stato), sia perché considera l’opposizione al governo uno strumento fondamentale. È infatti dall’opposizione che si costruiscono i programmi di governo, preparandosi a correggere ciò che non funziona nel governo in carica ed è sempre dall’opposizione che si può dar ossigeno alla propria politica, attraverso riflessioni e revisioni di quanto fatto quando si governava, riflessioni e revisioni sicuramente impedite da una permanenza eccessiva al potere. Non presumendo di possedere la verità, i riformisti non insegnano niente a nessuno ma semplicemente si pongono nell’ottica di portare avanti le loro idee, di confrontarle con chi la pensi diversamente e di rimettersi al volere dell’elettorato per la scelta di quelle che ritenga migliori. Lungi dall’essere una filosofia debole, il riformismo possiede la forza che viene dal confronto costante con la realtà, una realtà mai compressa entro categorie di giudizio prefissate, ma solo adattata alle forme logiche dell’intelletto umano, di per sé deboli e imprecise. Non basta dunque fare delle riforme per fregiarsi del nome di riformisti, né, tanto meno, essere genericamente democratici (agire cioè per o in nome del popolo) per essere liberal-democratici. Alla luce di quanto sostenuto, il riformismo italiano in epoca repubblicana, oltre che minoritario e spesso ininfluente, presenta un andamento carsico, apparendo in alcune precise e circostanziate occasioni per poi inabissarsi inevitabilmente. Un andamento del genere risponde ad un giudizio severo della politica, che non ammette forme spurie o generiche perché, se accolte, fanno di questa formula politica una prassi pressoché indifferenziata e svendibile in ogni situazione. Attenendosi a tale selettività si potrebbero enumerare alcune stagioni riformistiche (il centro-sinistra ai suoi esordi e il polo laico-socialista craxiano), alcuni passaggi (le iniziative referendarie di Mario Segni) e due segreterie del PD (partito nato per offrire alla sinistra un soggetto riformista), quella
del suo ideatore e fondatore, Veltroni, e quella di Renzi, che, pur in un modo originale, recuperava lo spirito autentico del partito, come esperienze riformistiche esemplari. È facile vedere come si tratti di un cimitero degli elefanti, vale a dire di programmi politici che avrebbero potuto sfociare in esiti positivi per l’Italia ma che hanno sbattuto contro forze preponderanti che li hanno impediti. Il meglio nemico del bene è la formula che meglio interpreta la carica riformistica del centro-sinistra nascente e l’applicazione pratica del PSI, una volta che abbia recuperato la sua autonomia dal PCI e​ maturata la sua ripulsa dal sistema sovietico. Ben consapevole dell’apertura obbligata e strumentale della DC nei suoi confronti, il PSI decideva di dare il suo contributo per un indirizzo progressista della politica italiana: insistere nella critica sterile di un’opposizione ideologica rischiava di fare male al paese oltre a rendere ininfluente e subalterna la politica del partito. Con ciò non si intende negare l’approccio ancora fortemente ideologico del PSI alla formula del centro-sinistra, quando si prefiggeva di introdurre nella politica italiana degli “elementi di socialismo” in vista di una trasformazione futura del sistema, mentre si apprezza la disponibilità al compromesso di alto profilo (che non fu sempre mantenuto), speso per spostare le scelte programmatiche nella direzione dell’interesse collettivo. Il polo della sinistra riformista , nelle intenzioni di Craxi, prendeva atto dell’autoisolamento del PCI e scommetteva sulle capacità federative del PSI, costruendo una casa riformista attorno ai socialisti per socialdemocratici, repubblicani e liberali da sottrarre alla DC. Si poteva trattare di un laboratorio politico in vista di un’alternanza di governo fra destra e sinistra democratiche, progetto ambizioso, costretto a contare su attori impreparati e miopi. Il passaggio stretto fra partitocrazia e populismo , passaggio rivelatosi effettivamente troppo stretto, anche a causa della gestione non sempre lucida del processo avviato da parte dallo stesso Mario Segni. Il declino dei partiti poteva evitare la deriva dell’antipolitica ma mentre Segni e Occhetto erano uomini di partito, per quanto impegnati nel rinnovamento, l’ homo novus era il prototipo del populista che approfittava di un contesto preparatogli da altri. La mission del Partito Democratico era da bel principio quella di dar vita ad un soggetto riformista che sostituisse le fallimentari esperienze di Ulivo e Unione, caduti entrambi per fuoco amico. Il progetto di Veltroni venne invece accolto come un utile diversivo o un espediente tattico e nominalistico nella scia del gattopardismo da sempre presente in una certa sinistra. Il “partito leggero” da tempo teorizzato doveva far posto ad elettori e simpatizzanti accanto agli iscritti ma anche tale intenzione fu lasciata affondare, assieme ad altri punti qualificanti, affossando una prospettiva politica combattuta dall’inizio in modo aperto e, più spesso, sotterraneo. Il rispetto della Costituzione non dev’essere venerazione ma invano Renzi, col piglio e la spavalderia del condottiero, tentò di far passare questo principio. Dal lontano 1983 e in diverse occasioni si era provato a dare una rinfrescata ad una Carta che allora aveva quarant’anni e che ora ne ha ottanta. Non ci fu nulla da fare, il fuoco di sbarramento che si era levato, lasciando sullo sfondo il merito della questione e concentrandosi sul premier e sul suo governo, oltre a registrare una decisa fronda interna, fece naufragare il tentativo di riforma che intendeva dare un nuovo assetto al Parlamento, dando vita ad una Camera delle regioni, come assemblea di secondo livello (eletta da eletti e fra eletti), e ad una Camera dei deputati a suffragio universale. La strada delle riforme in Italia è sempre stata “aspra e forte” e la politica che dovrebbe applicarvisi per definizione, la contrasta apertamente, favorita da una società che fatica a maturare alternando atteggiamenti subalterni e qualunquistici a ribellismi sterili e controproducenti.

Aprile 2025

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