Le previsioni danno pioggia e temporali dalle 22. La nuvola di Fantozzi a Vicenza rischia seriamente di diventare la “Mason’s cloud”. Se dovesse finire come l’anno scorso sarebbe demenziale. Ma dal momento in cui si son spente le luci queste preoccupazioni sono letteralmente sparite e alcuni dei brani più belli della storia del rock hanno probabilmente avuto la forza di far desistere Giove pluvio dalla volontà di tormentare il centro di Vicenza. La musica può fare questo e altro. Per due ore (più 20 minuti di intervallo) la band di Nick Mason ha rivisto il repertorio Pink Floyd dei primi 7 anni, quelli che vanno dal 1966 al 1972 compresi, in cui il gruppo era dapprima un sensazionale portavoce del movimento psichedelico e dopo una cult band progressive e intellettuale. Per chi conosce solo i fasti dell’epopea 1973/1980 con i 4 monumentali album “Dark Side Of The Moon”, “Wish You Were Here”, “Animals” e “The Wall” questi Floyd che Mason sta portando in giro, sono i minori, quasi i misconosciuti e moltissimi fans nemmeno, di fatto, li conoscono. Eppure esiste un’altra categoria di floydiani, che pensa che il meglio dell’intera produzione della band sia da trovare tra le perle di Syd Barrett e i viaggi mentali del Live At Pompei. Noi non ci mettiamo in nessuna delle due fazioni ma abitiamo comodamente entrambe le dimore ideali. Di certo c’è che per chi scrive, “Echoes” è il miglior brano dell’intera discografia dei Pink Floyd e venerdì sera è stato il momento centrale e più emotivamente toccante del concerto. “Echoes” non è solo il miglior brano dei Pink Floyd ma è forse anche il brano rock “classico” per eccellenza nella sua magniloquenza che non è mai indulgente, nella poesia delle armonie vocali, nel rumorismo ambientale della parte centrale, nella ritmica tribale nerissima e nel testo di commovente ricerca dell’utopia dell’incontro. Il pezzo arriva a chiudere la seconda parte del set, prima dei bis, e a suggellare così un live che è una festa. Se i primi Pink Floyd parevano un gruppo di introversi lisergici seriosissimi, questi, giustamente, che non sono i Pink Floyd, sul palco comunicano gioia e divertimento. Guy Pratt in primis, che è un membro dei Pink Floyd di fatto dal 1987 quando nei concerti prese il posto dell’ex bassista despota Roger Waters, genio e prepotenza. Con la casa madre ha poi suonato anche nell’album “Division Bell” e nel successivo tour ed è stato anche il bassista del Gilmour solista. Guy ha anche sposato la figlia del compianto Richard Wright, Gala Wright, nel 1996, entrando così ancora di più nella grande famiglia. Negli ultimi anni si produce anche in show di stand up comedy dove sfodera la sua brillantezza che si percepisce perfettamente comunque anche su un palco rock. Lui è un po’ il centro focale di questa band che ha tutta l’aria di un gruppo di amici che vogliono solo divertirsi, dotati di tecnica sopraffina e desiderosi di portare ad orecchie nuove le opere d’arte della vecchia scuola psichedelica.
A dire il vero il pubblico aveva un’età media piuttosto alta ma il richiamo del brand Pink Floyd ha comunque portato anche moltissimi giovani ad affollare (il concerto era sold out) la piazza. Scaletta varia e per nulla banale. Inizio col capolavoro “Astronomy Domine” e poi la doppietta dei primi due storici singoli “Arnold Layne” e “See Emily Play”. Spazio poi per l’inedito “Remember Me” con la voce di Syd Barrett usata come traccia. Successivamente “Obscured By Clouds” e “When You’re In” ovvero i due brani che aprono “Obscured By Clouds” disco che, come “More”, rappresenta la colonna sonora di un film di Barbet Schroeder e che viene ingiustamente poco considerato. Poi quella meraviglia chiamata “Remember A Day” del mai troppo ricordato Wright, con la sua malinconia eterea. Il buon vecchio (ahimè ormai sul serio) Nick tra un pezzo e l’altro parla col pubblico ed è puro godimento. Prima di “Set The Control For The Heart Of The Sun” inscena anche una telefonata con Roger Waters in cui gli comunica che il gong adesso lo suona lui visto che ai tempi era sempre appannaggio del bassista. La risposta di un Waters petulante e fastidioso è la gag perfetta per far capire l’anima di questo progetto. Protagonista della prima parte la suite di “Atom Earth Mother” senza ovviamente il corpo orchestrale ma in ogni caso dignitosissima anche se è stato forse il momento in cui rimpiangere di più le incisioni storiche.
Seconda parte in cui oltre alla già citata “Echoes”, si torna al disco barrettiano con “Scarecrow” e la splendida “Lucifer Sam” ma soprattutto c’è una stupenda interpretazione di “Fearless” e ormai avete capito che “Meddle” occupa un posto d’onore dalle nostre parti. Bis d’obbligo “One Of These Days” e “A Soucerfoul Of Secrets” entrambi monumenti (soprattutto la seconda) ma entrambi pallidi ricordi di quanto fossero deflagranti 53 e 56 anni fa. Già, perché il tempo passa. Anche per Gary Kemp, per molti la rivelazione della serata, a cui si perdona di aver scritto “Through The Barricades” visto che tra voce e chitarra solista ha giganteggiato per tutto il set. Certo, i paragoni con David Gilmour non ha senso farli, come non ha senso ritenere questa band una sorta di Pink Floyd del 2024. Sono un gruppo di amici non giovanissimi che ricordano i vecchi tempi. Una festa insomma, un modo per portare il rock classico ancora in giro coerentemente e seriamente. A Nick Mason va tutto il nostro affetto e si torna a casa cantando sognanti…
Overhead the albatross
Hangs motionless upon the air
And deep beneath the rolling waves
In labyrinths of coral caves
The echo of a distant time
Comes willowing across the sand
And everything is green and submarine