C’era una volta l’hi-fi. Gli audiofili si ritrovavano nei negozi ad ammirare come rapiti in estasi i nuovi impianti, l’ultimo modello di piatto Marantz, l’amplificatore valvolare che sembrava un centro della NASA, agognanti, supplicanti col negoziante di poter almeno sentire come “suona” l’impianto. L’adagio al tempo era che l’audiofilo doc nemmeno fosse interessato alla musica di per sé, ma solo all’oggetto che riproduceva la musica. Un disco valeva l’altro, l’importante è che fosse quello giusto per risaltare le capacità sonore del mezzo. Negli anni ’70 i vinili usati per le prove erano quasi sempre i soliti: “Dark Side Of The Moon”, “Tubular Bells” o pressoché qualsiasi cosa degli Steely Dan. Poi negli ’80 arrivò il cd e con l’era digitale cambiò anche l’homo audiofilus che iniziò da subito a rimpiangere i bei tempi dei vinili e delle lucette colorate da fissare per ore come ebeti mentre i brani si susseguivano trai solchi. È particolarmente bizzarro ora, se non quasi un segno dei tempi in senso lato, come il clamoroso evolversi della tecnologia e delle possibilità di accesso alla musica, ma anche ai film, sia andato di pari passo con un arretramento delle qualità dei supporti. Intere generazioni che si guardano le serie tv (quando va bene) chini sullo schermo da 6 pollici dell’iPhone. Il fatto è che ci guardano pure “2001 Odissea nello Spazio” che quando uscì nel 1968 presentava il trionfo assoluto del cinemascope e chissà che futuro si immaginava per la riproduzione delle immagini da lì a 60 anni. E invece l’enorme democratizzazione delle fonti non è andata di pari passo con un’adeguata cura e consapevolezza dei supporti. Lo streaming ha portato ad avere miliardi di dischi a portata di click ma poi li si ascolta con le cuffiette bluetooth dal solito cellulare ormai protesi umana vera e propria. E l’audiofilo degli anni ’70 guarda a tutto questo come un boomer dinosauro a cui qualcuno sta scavando la fossa.
Eppure i ricordi d’adolescenza nelle nostre camerette (che poi chissà perché la camera è sempre cameretta) tornano ogni volta teniamo tra le mani l’oggetto musicale, LP o CD che sia, e passiamo quei 45/50 minuti leggendo i testi e le note e guardando lo stereo, perché lo stereo è corpo animato, è cassa acustica dell’anima, nelle sue vette è un preziosissimo capolavoro. E l’impianto che hanno visto i più di 300 presenti nella sala del ridotto del Teatro Comunale di Vicenza domenica 19 maggio, era un vero e sontuoso capolavoro. Non vi diremo cosa costa, sappiate che costa tantissimo ma che vale ogni centesimo del suo stratosferico equilibrio tra estetica e resa sonora. L’iniziativa è nata dalla volontà di unire la rassegna di Vicenza Jazz, l’eccellenza della Sonus Faber (che ha sede ad Arcugnano da 40 anni) e il Teatro cittadino per volere del Presidente Luca Trivellato. Il risultato è stato sorprendente. Per più di un’ora il pubblico ha letteralmente “guardato il suono” come fosse tutto nella famosa cameretta, e lo ha fatto con un silenzio e un rigore anche maggiore di quando sul palco ci sono dei musicisti con gli strumenti reali. Già perché il suono usciva “solo” da un impianto incredibilmente eccezionale, probabilmente il top mondiale di categoria. Parliamo del sistema Suprema. Il progetto più ambizioso di Sonus faber fino ad oggi. Per gli intenditori o per chi vuole saperne di più, questo è il link. Di fatto il palco era dominato da questo impianto stupendo quanto imponente e all’inizio Livio Cucuzza (Chief Design Officer di Sonus faber) ha illustrato le qualità dell’opera d’arte (perché tale è) esposta per l’occasione e poi Matteo Bordone (giornalista e critico musicale colto e raffinato) ha accompagnato gli astanti in una vera “verticale” di storia del jazz attraverso le registrazioni e quindi le qualità sonore differenti in 100 anni di musica. Da “Potato Head Blues” di Luis Armstrong in era quasi ancora pioneristica (siamo alla fine degli anni ’20) passando per capolavori assoluti come “Moanin'” di Art Blakey and the Jazz Messengers, o una intensissima “Caravan” di Duke Ellington o lo stupefacente lavoro di Elvis Jones in “The Drum Thing” per terminare coi giorni nostri e il nuovo jazz di Mackaya McCraven. Un viaggio che è stato anche un ottimo e delizioso esempio di come si possa “insegnare” storia della musica in maniera molto originale e avvincente. Bravi tutti, pubblico compreso. Un esperimento sicuramente da ripetere, magari variando di volta in volta il genere musicale.