PER IL CAPPELLO CHE PORTO

di Alessandro Lavarra

L’adunata nazionale degli Alpini è una baraccata, è una enorme oktoberfest, che assurdità bloccare la città per questa specie di grande sagra. Questi alcuni commenti raccolti in città che, purtroppo, dipingono esattamente quello che vedremo nei prossimi giorni a Vicenza. Del resto che cosa resta? I veci, i reduci, gli Alpini che, tra le due grandi guerre, hanno scolpito lo spirito di corpo non ci sono più. Si sono spenti gli ultimi centenari testimoni delle sofferenze della campagna di Russia, gli anni sull’altopiano sono racconti da romanzo storico. La naja, che ha continuato ad alimentare le fila degli Alpini e il senso di appartenenza non c’è più, canti goliardici rievocano scenari estranei alla nostra attualità e hanno il sapore di un folclore di altre genti e di altri luoghi.

Anch’io come molti concittadini volevo andarmene da casa in questi giorni, bloccato da ordinanze un po’ brutali e sbrigative, irritato da quello che sono certo vedrò: cappelli finti, ubriachi che si ricordano di essere Alpini solo per un giorno all’anno, cappelli calzati a rovescio, zombie che si prenderanno la licenza di esagerare perché all’adunata sembra tutto concesso, del resto si sa, l’Alpino beve. Culturalmente ci siamo allontanati dallo stile di aggregazione proposto dall’adunata. I movimenti antimilitaristi, i fondamentalisti della lotta di genere, i pasdaran anti patriarcato trovano oggi terreno fertile per incendiare la polemica con questi “rozzi nostalgici” e spingere verso la contrapposizione a causa delle avance da caserma di qualche Alpino scomposto, manca solo la polemica sul ruolo della donna in Joska la Rossa. L’adunata vista da fuori è così, divisa tra celebrazioni ostinate “per non dimenticare” e il grande happening enogastronomico della mortadella gigante e del goto a un euro.

Eppure. Eppure dentro le cose sono diverse, perché dentro, da qualche parte in un luogo intimo che non fatico a chiamare anima, qualcosa si è fissato per sempre in chi è stato Alpino o in chi ha incontrato gli Alpini nei momenti di crisi o di emergenza. Con i termini del marketing possiamo dire che Alpino è un brand potentissimo dalla capacità attrattiva enorme e caratterizzato da una impressionante coerenza. Nata nella birreria Spatenbräu per volere di Arturo Andreoletti alpinista e ufficiale pluridecorato l’8 luglio del 1919 l’Associazione Nazionale Alpini riuniva i reduci di guerra e nel settembre del 1920 diede vita alla prima Adunata nazionale sul “nostro” Monte Ortigara, teatro di una delle battaglie più sanguinose della guerra e ribattezzato “Calvario degli Alpini”.  Con la forza d’animo e l’inclinazione al fare, da sempre tratti distintivi degli Alpini, è cominciata una storia di solidarietà e di altruismo. Sull’altopiano lo spirito alpino ha fatto risorgere dalle macerie non solo le case ma le comunità e le vite uscite a pezzi dalla guerra restituendo a quei luoghi l’umanità. E per cento anni, gli Alpini, non si sono mai fermati. Non ci sono calamità occorse nel nostro paese che non abbiano visto muoversi tra i primi gli Alpini. Dal Vajont, al Terremoto del Friuli, a l’Aquila dove all’adunata del 2015 non so quante persone mi abbiano raccontato dell’impatto benefico della loro presenza, non tanto per quello che materialmente si poteva fare, ma per quello che moralmente hanno fatto per sostenere quelle anime che rischiavano di andare in macerie assieme alle case. All’Aquila ho sentito l’abbraccio fortissimo di tutta la città che ha cambiato definitivamente la mia idea di adunata.

Gli Alpini sono gente dal sorriso ampio quanto le spalle, 13.000 volontari della protezione civile ANA, sono l’esercito laico, apolitico e civile che si muove compatto dove c’è da portare sostegno. Sono i volontari che assieme ai reduci e agli eroi, o più propriamente martiri, delle due guerre, alimentano l’orgoglio e il senso di appartenenza di tutti quelli che hanno la fortuna di aver portato o di portare l’iconico cappello con la penna. Un orgoglio che anche per noi, che non abbiamo fatto niente per meritarci alcuna attenzione, rimane come una fiammella nascosta  e che man mano che si avvicina il giorno dell’adunata cresce. Un orgoglio che diventa voglia di partecipazione e che muove come una voce interna, come una forza oscura, gli oltre 300.000 soci dell’ANA e molti tra tutti quegli Alpini che, come me, hanno solo prestato normale servizio militare e non hanno alcun altro merito. Una fiammella che si alimenta alla vista delle vie della città piene di bandiere, con le vetrine dei negozi che mostrano i simboli di questa epica storia raccontata dalle foto, dai fregi e dalle nappine dei cappelli, una fiammella che cresce alla velocità con cui sorgono gazebo, cittadelle, tende, accampamenti. Un sentimento che si nutre della vista dei primi accampamenti Alpini che iniziano ad occupare gli spazi della città.

Stamattina andando in ufficio osservavo i primi segnali di quello che so accadrà a Vicenza e si è man mano fatto strada dentro di me un inaspettato quanto incontenibile senso di gioia tanto forte da inumidirmi gli occhi. Pensavo al piccolo rivo che si trasformerà in fiume in piena e che sfocerà nell’infinita sfilata degli oltre 4.200 gruppi arrivati fin dall’Australia lasciando la città stordita dalla sorpresa e dalla portata di questo evento. Chi è stato vicino agli alpini sa quanto sia difficile contenere questa forza che sta per travolgere Vicenza, forza che guardata dal giusto punto di vista, liberata dalla crosta superficiale di grande sbronza generale, sarà una forza benefica fatta di altruismo, solidarietà, compattezza, appartenenza, un fenomeno che difficilmente gli italiani possono sperimentare in questa scala in altre occasioni.  Osservate questo fenomeno e lasciatevi rassicurare dal fatto che nel momento del bisogno questa forza sarà a vostra disposizione. Accettate allora i disagi o le contraddizioni di un così grande manifestazione e cercate di leggerci dentro il valore degli Alpini dalle cose più grandi a quelle più piccole, dal sacrificio dei 20.000 dell’Ortigara, al rientro disperato dalla campagna di Russia, agli uomini nel fango del Vajont, alle cucine da campo per preparare un pasto dopo un terremoto. Io, con questi pensieri mi sono trasformato dal vicentino un po’ snob che lascia la città irritato da questa calamità ad essere l’Alpino portavoce di tutto quello che il mio cappello rappresenta, di tutto quello che in cent’anni è stato fatto con coerenza e costanza, in guerra e in pace e prenderò, alla sfilata di domenica, gli applausi e l’ammirazione che, anche se non rivolti a me, sono rivolti a quello che il cappello che ho la fortuna di portare racconta e rappresenta.

W gli alpini e buona adunata Vicenza!

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