Carl Gustav Jung in “Simboli e interpretazione dei sogni” racconta di un fatto accadutogli che è metafora perfetta del tema del pezzo di oggi. Un giorno lo psicologo si unì ad un gruppo di suonatori di tamburo e danzatori e fu sopraffatto dalla paura. Jung stava studiando l’inconscio collettivo e temeva che sarebbe impazzito mentre i suonatori di tamburo e i danzatori si lasciavano dominare dalla musica. Alla fine pagò ognuno dei percussionisti affinché smettessero subito di suonare. Il ritmo, in effetti, può far perdere il controllo. Il nostro cuore che batte è il ritmo primario della nostra stessa esistenza. Tutto può essere scandito da un ritmo e diviso in battiti. Diceva Ernst Jünger: “Marciando ho sempre permesso che gli uomini cantassero, e ciò fa bene sia a loro sia a me. Tutto quel che ha a che vedere col ritmo è un’arma contro il tempo, ed è contro di esso, in fondo, che lottiamo. L’uomo combatte sempre contro la potenza del tempo”. Il ritmo è un’esperienza gioiosa, politica, estetica, spirituale. Ieri è stata una giornata in cui ha dominato il ritmo.
A Palazzo Thiene c’è stata l’esibizione di Irene Bianco, vicentina, percussionista sperimentale. Irene ha iniziato lo studio delle percussioni all’Istituto ‘Sergio Lorenzi’ di Lonigo e si è diplomata nel 2011 con Guido Facchin al Conservatorio Pedrollo. Nel 2013 si trasferisce in Danimarca, ennesimo cervello in fuga da un’Italia (e da una Vicenza) in cui è sempre più difficile trovare attrattività e predisposizione alle evoluzioni contemporanee. La sua musica si basa sulla libera improvvisazione con l’ausilio di devices elettronici, di loop ed effetti. Ritmi spezzati, sporchi, caracollanti, figli di Edgar Varèse e della musica concreta. Un altro appuntamento di totale eccellenza e profondità in questa rassegna negli spazi ipogei di Palazzo Thiene che è stata, ora si può dire, il fulcro dell’innovazione di questo festival.
Ritmo (leggasi batteria) protagonista del doppio concerto serale al Comunale. Dapprima con Rachel Eckroth, che alterna composizioni strumentali dove rifulge la sua perizia pianistica a brani cantati con piglio caldo ed espressivo, stemperato appena da un ironia un po’ amara di sottofondo. Le tonalità del jazz, che fu componente del suo percorso di formazione, donano profondità al suono e fanno da supporto a un cantautorato femminile sofisticato e disposto a uscire dai sentieri già battuti, in una direzione che parte da Laura Nyro e arriva a Fiona Apple passando per casa di Tori Amos. Menzione d’onore per la sezione ritmica della batteria di John Hadfield e del basso e contrabbasso di Anna Butterss, duttili ed elastici nel fornire ulteriore tridimensionalità alla musica della leader.
Si dice che il modo più autentico di omaggiare l’artista sia il recepirne lo spirito, non il replicarne pedissequamente forma e lettera. “Spiritualità” appunto è il termine chiave per comprendere l’omaggio di Hamid Drake ad Alice Coltrane, dal titolo del progetto (Turiya nell’induismo indica lo stato di coscienza pura), ai mantra intonati durante l’esibizione, allo stesso Spiritual Jazz di cui la Coltrane fu vessillifera. Drake pur forte di una devozione nei confronti di Alice nata da quando lui, sedicenne, ebbe l’occasione di incontrarla e discorrere con lei di musica e religione, si affranca con personalità dal modello ispiratore citandone occasionalmente i temi (vedi quello di Journey in Satchidananda che affiora durante il concerto o si pensi alla “universal consciousness” evocata dallo spoken-word di Ndoho Ange) ma preferendo riferirsi più al mondo di Alice Coltrane che strettamente alla sua musica. Assumono così un loro senso le danze della Ange su palco e le digressioni dal percorso, come certe divagazioni di tono reggaeggiante o un riuscito duetto tra contrabbasso e campionatore. È un oceano di suono dove Hamid Drake miscela col polso saldo da batterista le varie componenti, le tastiere liquide e spumose dello straordinario Jamie Saft fungono da emolliente e le armonie vocali, la tromba, il contrabbasso e le interferenze elettroniche si intersecano con efficacia nella trama, resi forti e coesi dal loro comune sentire (significativo come Drake, presentando i membri del gruppo, ne abbia sottolineato le disparate provenienze geografiche, quasi a sottintendere un gioioso cosmopolitismo). E quando l’esuberanza ritmica si placa, gli spazi si dilatano ed è tempo di meditare e trascendere, forse sognare.
Che questa edizione sia stata, di fatto, dedicata ad Alice è molto bello. Ci sono percorsi artistici il cui valore spesso trascende le regole, scelte di vita dietro le quali c’è molto di più di una serie di suoni e parole messe in fila al fine di attribuirgli un senso compiuto. Quando Alice Coltrane dovette affrontare la morte del suo compagno, John Coltrane, il senso di vuoto e d’inconsapevolezza aveva prosciugato fisicamente e mentalmente la pianista americana e solo una profonda analisi ascetica mise la parola fine alle continue allucinazioni e alla costante perdita di peso che l’aveva trascinata verso la disperazione. A quella disperazione, ora da Vicenza si è levata una preghiera ed una danza in risposta, colma di amore e devozione.