La notte. Se pensi al jazz pensi alla notte. La notte che avvolge, silenzia, ovatta. La notte in cui la luce è fioca e tutto diventa più intimo, più vero. La notte da amare e per amare. Ma anche la notte delle paure, dei pensieri che si accavallano e ci rendono insonni. Notte di note e note di notte, cantava, mi pare, un tale Baglioni. Camminare piano, senza far rumore, parlando a voce bassa o non parlando affatto, lungo i sentieri e sotto i portici del cimitero monumentale, a mezzanotte inoltrata, scorrendo i nomi delle grandi famiglie vicentine, è un’esperienza religiosa. La tomba di Andrea Palladio, circondata da lumi rossi, è un santuario di bellezza struggente. Quando Riccardo Brazzale e Luca Trivellato pensarono al cimitero monumentale di Vicenza come luogo per un concerto notturno, lo fecero anche per mistificare la notte intesa come buio dell’anima, la morte che intimorisce foscolianamente e ammonisce chi non la comprende.
Qui riposano in pace, nessuno viene disturbato. Nessuno viene dissacrato. La musica è il messaggio e la carezza più bella che ci sia. “Ehi lassù, so che ci sentite, questi suoni sono per voi”. Il raccoglimento che coglie tutti i numerosissimi spettatori già all’entrata è di profondo rispetto. Rispetto per la vita, per gli amici assenti, rispetto per la sacralità della musica e di questo rituale umano che chiamiamo esistenza. Zoe Pia e i Tenores di Orosei hanno deliziato la notte senza ferire il tempo. La Sardegna con le sue tradizioni antiche, con il cantu a tenore, Zoe con l’approccio avanguardistico che già avevamo goduto giovedì pomeriggio con Mats Gustaffson. Musica d’ambiente senza esserlo. Architettura sonora per un paesaggio emotivo.
Il concerto al cimitero è venuto dopo uno dei momenti più emozionanti dell’intero festival. Abdullah Ibrahim ha commosso il Teatro Olimpico che gli ha tributato una standing ovation prolungata. Questo uomo, che cammina piano poggiandosi su chi lo accompagna al centro del palco, che quasi curvo su se stesso fa un respiro breve e poi entra in un’altra dimensione da cui uscirà dopo un’ora di improvvisazione poetica e lancinante. Questo vecchio uomo è un prezioso regalo per i tantissimi presenti, così tanti da aver occupato anche parte del palcoscenico, dove eravamo pure noi, beati.
Era stato già qui nel 2007. Quello che suona è senza dubbio alcuno un approccio classico al jazz. No foto please, ha chiesto, anzi ordinato. Nessuno si distragga, tenete in tasca i dannati cellulari, godetevi il momento. La foto non ruba più l’anima come nell’ottocento ma fa molto peggio, ruba le emozioni, le filtra, rende virtuale anche il reale. Vedere la gente che va ai concerti e passa il tempo filmando col telefonino è deprimente quanto illogico. Intanto Ibrahim ha iniziato. Suona molto il centro della tasiera. Sembra girare e rigirare intorno ad un tema sempre abortito e spinto in avanti come una lunga, verbosa, circolare conversazione tra se e un altro se stesso. La tonica dominante torna sempre a recare una sensazione di simmetria. Poi, all’improvviso, l’improvvisazione vira in un blues saltellante. Ma il suo personale discorso continuamente interrotto, riprende dopo poco. Nei silenzi e nelle pause si manifesta la profondità spirituale della sua musica. Nella cadenza e nell’eco delle singole note. Il finale poi è tronco. Come un respiro che smette di essere necessario. Ci lascia con un canto senza accompagnamento, lui, in piedi, la sua voce come un gospel risuona nel teatro.
Nel pomeriggo c’era stato il set del Giuditta Franco Quartet che aveva reso omaggio a Michel Legrand, il cui songbook è miniera d’oro di classici che quasi tutti i cantanti di jazz hanno usato. Ha inoltre composto colonne sonore per alcuni fra i più importanti registi americani: Orson Welles, Sydney Pollack, Robert Altman, Clint Eastwood, Norman Jewison; ha continuato a collaborare anche con maestri del cinema francese ed europeo: Marcel Carné, Jean-Paul Rappeneau, Louis Malle, Andrzej Wajda, Claude Lelouch ecc…
La giornata è stata quella della sofisticatezza, dell’intima armonia, del classicismo inteso come stile, modo di essere, educazione al bello. Una di quelle giornate in cui abbassi il tono di voce anche se parli con l’amico, tornando a casa a piedi, nella notte vicentina, calmo e placido come un’idea compiuta.