Diciamolo subito: siamo di parte. Faziosi, disonesti intellettualmente, anche un po’ ridicoli nell’anteporre l’amore al raziocinio. Siamo un giornale che dà ragione a se stesso. Se continuate a leggere questo articolo sappiate che siamo dei peccatori. Bene, vedo che siete ancora qui. Allora, cerchiamo di spiegarci peggio. Di Matts Gustaffson siamo fans. “Echoes” il disco monster pubblicato un mese fa a nome Fire!Orchestra sarà probabilmente il disco dell’anno per chi scrive. Il lavoro di Gustaffson negli anni si è sempre più spostato in direzioni avanguardistiche e colte, e considerarlo un musicista free jazz è una pacchiana e debolissima lettura superficiale. Con la Fire!Orchestra, soprattutto il sassofonista svedese è arrivato a proporre una musica totale, orchestrale, psichedelica, libera, calata in un gospel futuristico, che prende da Sun Ra e Pharoah Sanders ma anche dalla contaminazione prog e fusion, dalla musica atonale e dall’arte dell’improvvisazione. Difficilmente vi capiterà di ascoltare qualcosa di più eccitante nella scena attuale. Con queste premesse era evidente attendessimo il concerto di Matts Gustaffson con Zoe Pia. L’evento era fissato alle 18 negli spazi ipogei di Palazzo Thiene. Riceviamo Matts fuori ed entriamo assieme. Lui commenta la bellezza del luogo e poi subito dopo mostra orgogliosamente la sua medaglia al collo che rappresenta lo stemma vichingo e dice “questo è più antico di Palladio”. Si sa, agli idoli perdoni tutti. Poco dopo inizia quella che sarà un’ora di arte, di architetture sonore talvolta indefinite, sfuocate, impressioniste, futuriste, contrastanti, parallele, intrecciate.
Zoe porta in dote la sua terra, la Sardegna, suonando le launeddas, uno strumento di origini antichissime in grado di produrre polifonia, suonato con la tecnica della respirazione circolare ed è costruito utilizzando diversi tipi di canne. Zoe ha grande fascino (si lo ammetto, mi sono innamorato) e passa poi al clarino, usa molto i pedali e gli effetti e soprattutto è padrona di un elettronica minimale ma profondamente efficace. Matts intanto produce rumore, crepitii, barriti di sax. Pare laptop music. Il nord che fa percepire il territorio in un paesaggio turneriano.
Gustaffson suona il corpo dello strumento, suona direttamente l’ottone che è come percosso, come stuprato. È musica fisica, violenta. Lei stupenda, affronta temi di clarino vagamente esotici. Usa pedali ed effetti. Il riverbero degli amplificatori come vento felliniano. La luce poi si spegne sui due mentre Matts suona una mini armonica. Siamo ora immersi in screziature elettrostatiche, mentre il flauto piange un lamento e singhiozza pena e sconforto. Zoe suona una sorta di Theremin chiamato light-synth Lumanoise
Poi riprende il clarino sopra al vento che è deserto, che è silenzio che è sconfinato paesaggio promesso. Questa è una musica completamente evocativa. È balletto e lotta. Unisce avanguardie a primitivismo. Quando pareva tutto già essere più che perfetto, ecco arrivare un finale mozzafiato. Prima i due calano la tensione suonando quasi melodiose note di commiato, ma piano piano, dalle stanze del palazzo, sale un canto e poco dopo si materializza fisicamente un gruppo di cantori sardi: i Tenores di Orosei Antoni Milia. A terminare questo rito di terra, di antica passione, di natura, di purificazione, di celebrazione della vita, arriva il cantu a tenore, come un’epifania, che suggella questa performance di totale eccellenza.
Alla fine approfittiamo per parlare con Zoe Pia. “Rites – ci dice – nasce dall’energia creata da me e da Matts insieme. Ogni volta è un rito perché ogni volta è tutto improvvisato. Pensiamo questo sia un lavoro che debba far risaltare la spiritualità e l’energia vitale. Non so se sia Jazz perché per me Jazz è tantissime cose. Jazz è Ligeti, è Stockhausen, è ambient e world music. Credo sia la musica più indefinibile e quindi la più libera.
E poi? Ah si, poi c’era il festival che continuava. Però prima apriamo una brevissima parentesi che riguarda Riccardo Brazzale. Aver portato quest’anno (soprattutto quest’anno) il Vicenza Jazz in territori di avanguardia è una scelta a cui vanno fatti solo che molti e calorosi applausi. Chiusa la parentesi. E andiamo in polpetteria.
The 3-Body Problem sono Luciano Menarin (contrabbasso), Paolo Tromben (batteria) e Sergio Osti (chitarra). “Rumori Polpetteria” è uno dei tanti locali che contribuiscono al cartellone del festival e a questi esercenti deve essere riconosciuta una lode per il lavoro, per la passione e anche per il rischio che si prendono. Vicenza è una città piena zeppa di musicisti in cui per contrasto è quasi impossibile suonare dal vivo. Se non sei una cover o tribute band poi scordatelo. Il sogno è avere musicisti locali che propongo il loro repertorio nei bar, nei ristoranti, negli spazi d’arte, ma se non ci fossero rassegne come questa rimarrebbero pochissimi i posti dove questo può accadere. Il Vicenza Jazz quindi è anche dei locali, dei bar, come la polpetteria, il bamburger, il borsa, il drunken duck, il pestello, la cocinita del covo, la meneghina, porto burci, la cantina del tormento, il tiffs bistrot al centro sport palladio, l’enoteca papillon di thiene, alle colonne in piazza dei signori, e se ci stiamo dimenticando qualcuno non vogliatecene.
Quello che si chiama “main events” ieri era il concerto al comunale del Donny McCaslin Quartet
seguito poi da un secondo set con Fabrizio Bosso & il Rosario Giuliani Quartet. E anche qui, c’è stata emozione vera, non fosse altro che Donny McCaslin è stato il sassofonista dell’ultimo (purtroppo letteralmente) album di David Bowie, quell’opera straordinaria che si chiama “Blackstar”. Il genio del Duca bianco aveva infatti pensato, giustamente, che solo dei grandi jazzisti potevano dare una patina urbana e calda ed artisticamente rilevante ai brani che aveva scritto. Il jazz di McCaslin è visionario, lontano da ogni cliché, libero e contaminato.
A seguire Fabrizio Bosso e il Rosario Giuliani Quartet. Fabrizio Bosso, è universalmente considerato uno dei migliori trombettisti a livello internazionale sia per la sua tecnica sopraffina ma soprattutto grazie al feeling che caratterizza i suoi assoli, ora funambolici ora densi di lirismo e pathos, ma sempre puntuali e ricchi di estro. L’artista torinese è impegnato in numerose formazioni e ha un’attività concertistica densissima e variegata, che contribuisce ad arricchire di nuove sfumature le nuovi spunti le sue improvvisazioni. Rosario Giuliani impressiona l’ascoltatore fin dal primo momento per la facilità con cui sa trarre dai suoi sassofoni un fraseggio fluido, a tratti vorticoso, allacciandosi con naturalezza a grandi sassofonisti come Julian “Cannonball” Adderley, Art Pepper, John Coltrane. Queste due eccellenze hanno deliziato il pubblico esibendosi in un repertorio composto sia di standard che composizioni originali, dalle fortissime connotazioni ritmiche.
Una giornata così crossover non può che essere chiusa con una citazione del musicista totale per eccellenza: Frank Zappa.