Vicenza Jazz 2023, giorno 8. Oh! dolci baci, o languide carezze

La melodia. Quel che ti rimane a volte, o spesso, è la melodia. Che poi è quella cosa che sta sopra a tutto il resto. Come se le sofferenze, il lavoro, la fatica e i contrattempi fossero il ritmo e le leggi strofiche, mentre la melodia invece rappresentasse l’élan vital, le parole che ti ricordi, i baci che rubasti. Giacomo Puccini è stato (anche) il non plus ultra della melodia. Nulla è tanto complesso quanto la “facilità”, e l’inesauribile melodia pucciniana è frutto di infinite derivazioni e variazioni; ed è immersa in colori orchestrali che non è facile intravvedere in tutte le loro sfaccettature timbriche delle esecuzioni di routine. La melodia pucciniana deve raggiungere un colore glorioso ed estendersi nel regno della grandezza, non in quello delle “piccole virtù”, o delle virtù perdute, perché tramuta queste mediocri virtù portandole nelle regioni dei beati, ossia abitate da idee fondamentali e da uno stile “unito” che le esprime, che le rende immediatamente riconoscibili. Oggi partiamo da qui, da Puccini che è stato protagonista dello splendido concerto di Danilo Rea e Michel Godard al Teatro Olimpico. Ieri non ha piovuto quasi mai, come se anche il capriccioso maggio volesse concedersi una sera quieta e chiedersi, come il coro nel primo atto di Turandot, “perché tarda la luna?”. Eccola la luna ora, nel cielo quasi limpido. Schiarito da una giornata, l’ennesima giornata, in cui si è cercato di fissare l’attimo tra una nota scritta ed una improvvisata.

“Ndovu”, visti a Palazzo Thiene alle 18, sono stati una sorpresa lietissima. Progetto di Martina Ghibellini (voce) con Luca Scardovelli alla chitarra, Dario Ponara al vibrafono e Silvano Martinelli alla batteria. L’assenza di basso lascia l’armonia come sospesa seppure le note basse della chitarra siano molto presenti. Una forma canzone non usuale, in cui non c’è nessun vero fondo stabile su cui poggiare la melodia. Voce a tratti recitante, di impronta teatrale. Vibrafono in perenne movimento e non figlio della scuola classica di Milt Jackson per intenderci. Batteria sferragliante. Si sente più la lezione di certo post rock tipo Tortoise o i quasi dimenticati Aloha. Le composizioni sono dei componenti della band con testi onirici e intrisi di filosofia orientale che parlano di entrare in contatto con ciò che deve essere compreso. “Siamo amici e ci siamo messi in gioco”, dice Martina. Beh, il gioco è riuscito bene.

Da qui parte un lungo aperitivo finalmente all’aria aperta che consente ai vari locali di far suonare i musicisti fino a ieri tenuti nella “mossa” come i purosangue al palio. Seguendo il programma passeggiamo sul festival come turisti a casa nostra. Ecco allora un po’ di samba al Bamburger con Ric & Nita. Lei è Rita Brancato di cui abbiamo già parlato e che in questo festival ha suonato in ben tre occasioni.

Poi, verso il centro, alla Meneghina, corroborati da vino superbo, ascoltiamo GJ & The Funkers.

In piazza delle erbe, alla Cantina del Tormento, il Mauro Beggio Zenit Trio ci permette di ritrovare un grande amico del festival oltre che un grande musicista. Il valdagnese Beggio è un grande nome del jazz italiano, ha suonato con giganti come Lee Konitz, Kenny Wheeler, Don Friedman, Enrico Rava, ma la lista è lunghissima.

E ora torniamo a Puccini. Al più grande compositore d’opera italiano. Non ce ne vogliano i rossiniani o i devoti a Donizetti, ma Puccini è un’altra cosa. Sento da qui una vibrante protesta dei verdiani, lo sapevo. Ma come? Nemmeno citi il maestro da Busseto? Mi pare di star qui a litigare su Guicciardini o Macchiavelli, i Coppi e Bartali della storiografia della povera Italia. E qui si sta con Guicciardini, senza se e senza ma. E quindi si è fuori dalla retorica. Diciamocelo: Verdi fino alla tarda età era tutto un zum-pà-pà-zum-pà-pà e romanticismo risorgimentale su cui ha marciato per procurarsi caviale al posto del pane. Poi, negli anni della vecchiaia, il colpo d’ala vero: il Requiem, Otello, Falstaff, il Te Deum e i Quattro Pezzi Sacri. Meraviglia delle meraviglie. Là sta il miglior Verdi, mica altrove. Ma torniamo a Danilo Rea e Michel Godard. Quest’ultimo imbraccia, potremmo anche dire accoglie, uno sfavillante bassotuba ma soprattutto un elegante gioiello che si chiama serpentone che già era presente nelle orchestrazioni pucciniane per poi essere sostituito dal bassotuba che è la sua naturale evoluzione. Il concerto è stato un susseguirsi di balzi al cuore e singulti che sono impossibili da rendere a parole. Quando attacca “Nessun dorma”, in questa versione, pensi al jazz e agli americani che l’hanno inventato loro, eh però Puccini ce l’abbiamo noi e tutto il mondo canta “vincerò” e siamo al teatro Olimpico e santiddio che bello che è vivere in questo preciso istante qui seduti.

Viva Verdi, si scriveva sui muri più di 160 anni fa. Verdi era diventato il tana libera tutti di quella generazione, attraverso lui si inneggiava a Vittorio Emanuele Re d’Italia e si cantava il “Và Pensiero” credendo parlasse di noi. Certi celti avvinazzati lo fanno ancora adesso ma guai a spiegargli che la romanza parla di ebrei e della loro oppressione, figurati se serve. Giacomo Puccini non c’entra nulla con tutto ciò, egli c’entra solo con l’assoluto musicale. Viva Puccini non è un acronimo, è la pura verità. Suonano “Highlands”, brano di Danilo Rea scritto in Scozia. Parla di rarefazione. Viene in mente Dylan e la sua “Highlands” che chiudeva quel capolavoro chiamato “Time out of mind” e che in lingua dylaniana spiegava come tutto ti venga a noia prima o poi tranne il sogno di un riposo lontano e sereno.

I due si parlano con gli strumenti ed è dolce il naufragar nel loro mare. C’è un assolo di bassotuba così goffo, così sgrammaticato, così brutto anatroccolo e così perfetto, così delicato, come un qualcosa che sta lì e non fa male. C’è il pianismo jarrettiano di Rea e le sue variazioni sul ritmo e la tonica di cristallina perfezione estetica. C’è che rileggono pure Monteverdi e pare scritta domani, d’altronde Monteverdi era avanti di secoli. Non è forse innegabile che l’Orfeo sia la prima rappresentazione di arte totale di sempre? E poi arriva il momento che tutti aspettavamo. In musica ci sono dei momenti chiave, delle note, delle frasi, delle melodie. C’è l’allegretto della settima (e non serve aggiungere altro, il singolo movimento musicale più devastante della storia) c’è l’accordo del Tristano (da cui forse nasce il jazz) c’è il Prélude à l’aprèsmidi d’un faune (jazz, di nuovo) o l’intro della Sagra della Primavera, c’è Stolen Moments (uno dei temi più belli di tuti i tempi), ma c’è anche Yesterday, insomma ci sono tanti momenti e melodie memorabili e poi c’è e lucean le stelle.. e tutto il resto scompare. Ad un certo punto Danilo Rea la trasforma, giusto per pochi istanti, in Le feuilles mortes e si sente uno stupore tra il pubblico e si sente la storia della musica, come un ala, che ci passa sopra.

Vorremmo ora dirvi del set che ha seguito questa meraviglia. Un set di free jazz folle e divertito offerto dal Tiger Trio. Vorremmo anche poi dirvi del concerto al Jazz Cafe in omaggio a Nina Simone e Billie Holiday fatto col cuore dall’Indaco Trio. Vi lasciamo giusto due filmati dei due concerti ma non chiedeteci parole. Quelle le avevamo finite quando, tra noi e noi, cantavamo “e non ho amato mai tanto la vita! tanto … la vita”.

Aprile 2024

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