Vicenza Jazz 2023, giorno 5. Something’s coming

Aspettatevi l’inatteso quando vivete il Vicenza Jazz, sempre lo viviate come si deve. Esiste un vademecum per seguire correttamente un festival e chiunque frequenti queste rassegne in giro per il globo (no, terracqueo non lo diremo, no) conosce il manuale a menadito. Ci sono i luoghi del festival, le piazze, i teatri, i locali e questi luoghi, dislocati in giro per la città, formano un percorso che diventa il tour quotidiano. Nel programma trovate indicazioni più dettagliate sui grandi nomi, sui concerti della sera, su quegli eventi che spiccano per fama, importanza della location e storia musicale alle spalle. Ma guai a fermarsi lì. Ci sono sorprese inattese, regali del destino, incontri che non ci si attendeva affatto di fare. E ci sono, soprattutto, happening che non si possono nemmeno definire “concerti” ma che sono qualcosa di diverso, e di laterale, e di intrigante. Il Jazz come musica colta è probabilmente quello che nasce a partire dal bop, quindi nella New York degli anni ’40. Con il free e la third stream tra i cinquanta e i sessanta, divenne a tutti gli effetti musica d’avanguardia e anche i critici più conservatori accettarono il Jazz come “musica contemporanea” a tutti gli effetti. Non deve mai stupire quindi si faccia jazz nelle gallerie d’arte, nei musei, lo si accosti al cinema, alla danza, alla pittura. Non deve per nulla suscitare dubbi, in primo luogo, se il jazz rimane o meno jazz quando si entra nelle musiche di confine, nell’elettronica, nell’hip-hop o nel mare magnum della musica sperimentale o improvvisata. In quest’ottica, quello che si è visto alle 18 a Palazzo Chiericati è stato particolarmente toccante.

Come dicono loro stessi: “pianosolocorposolo è una performance/concerto, sulla carezza, sul tattile “gioco con qualcosa che si sottrae”. C’è una nostalgia dell’altro. Un tentativo di ricostruzione di un’assenza. E il ricordo dell’esperienza costruisce i segni di un rituale, di una cerimonia in cui il proprio gesto si origina nella scomparsa di sé nell’altro” Vedere Claudia Caldarano & Simone Graziano nella sala del Chiericati, tra le maestose opere di Giulio Caproni, Gregorio Lazzarini e Luca Giordano, è stato molto forte.

Una danza costretta, quasi immobile, fatta di spasmi, di tentativi dolorosi di liberazione da uno spazio che non ingabbia ma costringe. Un dialogo tra corpo e mente, tra silenzi e gemiti soffocati. Veniva in mente l’urlo muto di Lydia Brenner ne “Gli uccelli” di Hitchcock o il il battito ostinato e ripetitivo di Ligeti in Kubrick. E poi Bartok e John Cage. O la morte per danza in Stravinskij. In mezzo a quadri capolavoro la domanda è: cosa saremmo noi se non diversi e distinti aspetti di un solo essere scalciante e mortale?.

All’uscita la sorpresa è la pioggia. Ma dai, piove? Chi l’avrebbe mai detto! Già erano stati rimandati due eventi nel primo pomeriggio a causa del tempo. Due marching band che avrebbero dato quel senso carnascialesco e molto New Orleans alla città. Ma niente da fare. Ora sono ormai le 19 e mezza e si va verso le piazze aspettando, in teoria, il concerto delle 21 al teatro Olimpico. Invece giunti in Piazza dei Signori, ci arriva un suono forte e penetrante, che non è jazz ma nemmeno rock, o non il rock solito e (scusate lo snobismo) ripetitivo e stantio. Che poi la polemica da queste nostre misere latitudini, è sempre stata sul jazz concepito come lingua morta. E i guru del tedio, tra di loro pensosi, massaggiandosi barba e sinopsi, asserivano soddisfatti che “non se ne può più di questo hard-bop morto da 50 anni con i suoi tema-impro del sax- solo del batterista-ripresa del tema. Pare di voler parlare per forza ancora latino. Dov’è la riforma? Dove?”. E mentre finivano la loro giulebbe, inebriati dal pessimismo, manco si accorgevano che intanto pure il rock stava diventando cliché, rimasticatura e che, forse, era morto ad inizio secolo, per lo meno come musica che narra il presente. Per nuovi corpi servono nuove orecchie. “Happy new ears” diceva John Cage, che Dio ce lo saluti. E con queste piccole orecchie mortali abbiamo sentito arrivarci la musica degli Haffe Giraffe + Listening Circuits, combo di ben 7 elementi alla seconda uscita pubblica. Una sorpresa, questa si, totale. Immaginate le lunghe jam dei Pink Floyd di Ummagumma, metteteci lo space rock dei Gong, qualcosa in odore Swans ma decisamente meno tellurico, i saliscendi dei Godspeed You!Black Emperor, il solito e perenne Miles Davis periodo “Jack Johnson”, spizzichi e bocconi di Mahavishnu Orchestra e ancora non avete afferrato in pieno. Una band (veronese) che si cala alla perfezione nella scena del jazz moderno forse più eccitante, quello strumentale e “totale” che racchiude larghi momenti psichedelici e aperture orchestrali terzomondiste.

Questo accade se vivi un festival come deve essere vissuto. Questo accade se giri in giro alla città e ti lasci chiamare dal suono che è nell’aria. E la bellezza è che subito dopo torni “mainstream” e vai verso il tempio chiamato Teatro Olimpico per un concerto di classica bellezza estetica. Per il New York Times sono il miglior duo di piano al mondo. Madonna le adora, Philip Glass ha scritto per loro un concerto ad hoc, suonano assieme da quando avevano 3 e 5 anni, e vederle ed ascoltarle è una delle esperienze più belle si possano fare in una sala da concerto oggi come oggi. Katia e Marielle Labèque hanno inciso 60 dischi e sono delle vere e proprie grandissime star.

Could be . . .
Who knows? . . .
There’s something due any day—
I will know right away,
Soon as it shows.
It may come cannonballing down through the sky,
Gleam in its eye,
Bright as a rose.
Who knows?

Leonard Bernstein scrisse “West Side Story” nel 1957 ed oggi è una delle opere contemporanee più messe in scena in tutto il mondo. West Side Story è il Fidelio americano, è Shakespeare riletto attraverso Tocqueville, è l’America alla spasmodica ricerca del sublime, è incrocio vertiginoso tra dramma e balletto, tra opera e teatro musicale, tra Broadway e le periferie di New York. Che le due sublimi sorelle abbiano scelto proprio una selezione da quest’opera immensa di Bernstein per chiudere il programma del concerto, è stato semplicemente perfetto. Lenny amava il jazz, si dice ascoltasse di continuo vecchi dischi a 78 giri assieme alla sorella Shirley. Le Labèque scelgono come ultimo bis (dopo aver eseguito un brano di Glass) “Somewhere”, sempre da WSS, e la commozione è forte anche perché siamo mica nati ieri e ce lo ricordiamo Tow Waits barrire nei solchi del primo brano di “Blue Valentine” e se piove allora va bene, anche se fa freddo a metà maggio, datemi un whisky e un piano verticale nemmeno intonato bene, datemi un amore da dimenticare e una notte senza sonno e tutto si rimette insieme in un quadro dove ci sono le due sorelle pianiste, Andrea Palladio, la sigaretta tra le labbra di Tom Waits, la tua città che in fondo non lascerai mai e quella frase … Someday, Somewhere, We’ll find a new way of living, We’ll find a way of forgiving, Somewhere … che è jazz anche se non lo sai.

Come termina questa giornata di incontri casuali, di serendipità semplice e quasi umile? Per usare T.S.Eliot diremmo “Non già con uno schianto ma con un lamento” e con poche persone, troppo poche, a sentire Mali Blues al Teatro Astra che, per colpa della dannata pioggia e del dannatissimo freddo, è il rifugio del Jazz Cafe Trivellato, che era però pensato per il giardino all’aperto e tutt’altra dimensione di intrattenimento. Quanto ci manca la sala degli Zavatteri, quanto manca in generale uno spazio, degli spazi, in cui far incontrare comunità di persone che, attorno alla musica e all’arte, si possano relazionare, conoscersi, bere e innamorarsi. Poveri noi romantici delle 23.30 circa. Poveri noi che ci rode dentro vedere pochissima gente ad ascoltare questo trio strepitoso che, senza soluzione di continuità, sciorina melodie africane, poliritmi frenetici e una sorprendente ricerca nei suoni e nei timbri. Ma rimaniamo felici lo stesso. Come scriveva Bernstein: “Somethin’s comin’, I don’t know what it is but it is gonna be great”.

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