Nel 1887 fu pubblicata “Slave songs of the United States”, la prima raccolta di spartiti di canti tradizionali neri. Era la musica delle piantagioni, degli schiavi, che spiegava meglio di un trattato di sociologia l’abisso dell’America razzista. La musica cambia il mondo, la cultura è politica. Il Jazz è una delle espressioni artistiche più politiche nel senso alto del termine proprio perché parte dal desiderio di libertà, dalla rivendicazione dei diritti. New Orleans era un crogiuolo di genti e colori e suoni, puttane, assassini, giocatori d’azzardo, perdigiorno, saltimbanchi dell’essere. La parte rinnegata dalla società perbenista, forse la parte più viva. Il Jazz è ribollire di passioni e di lotte. Oggi partiamo da qui, dall’America nera, e partiamo dallo spettacolo di punta di ieri: “Jitney” di August Wilson che è stato messo molto intelligentemente in programma proprio perché, pur essendo teatro e quindi non direttamente catalogabile all’interno di un festival musicale, riveste un ruolo fondamentale di divulgazione dei temi stessi che sono alla base di questa straordinaria musica che non si può mai etichettare perché capita che spesso “quando non sai cos’è, allora è jazz!”
“The Wilson Project” è una delle operazioni culturali più importanti e più intelligenti degli ultimi anni in città e si deve davvero ringraziare la Piccionaia per avere portato qui questo grande autore. Il più grande drammaturgo afroamericano, due volte pulitzer, che in Italia è colpevolmente poco noto, è il cantore della black america e in “Jitney” per la regia del vicentino Renzo Carbonera, si è vista la storia di conflitti, sconfitte e piccole vittorie di chi nonostante le conquiste del movimento per i diritti civili, continua a essere escluso dal cosiddetto “sogno americano”. Tutto questo è squisitamente ed intrinsecamente jazz!
Ma ieri è stata tutta una giornata di rimandi culturali molto alti e di contaminazioni. Quello che si respira durante il festival è un sentimento di apertura ed inclusività sia umana che intellettuale, ed è molto eccitante unire punti lontani sulla carta dei significati e dei significanti, che, uniti, danno un disegno di globalismo e interconnessioni che poche altre musiche possono offrire. Jazz è meticciato migrante, jazz è confine, jazz è poesia mutante. E di poesia, altissima e raffinatissima poesia, si è parlato a Palazzo Leone Montanari alle 18. Wislawa Szymborska è stata donna e poetessa permeata da un senso di libertà e da una coerenza battagliera. Quando le diedero un meritatissimo Nobel, lei disse: «(…) Nel parlare comune, che non riflette su ogni parola, tutti usiamo i termini: “mondo normale”, “vita normale”, “normale corso delle cose”… Tuttavia nel linguaggio, nella poesia, in cui ogni parola ha un peso, non c’è più nulla di ordinario e normale. Nessuna pietra e nessuna nuvola su di essa. Nessun giorno e nessuna notte che lo segue. E soprattutto nessuna esistenza di nessuno in questo mondo. A quanto pare, i poeti avranno sempre molto da fare.» Voi direte, ok ma col jazz che c’entra? Vogliamo ora dire che tutto è jazz? No, non lo pensiamo nemmeno, però amici cari, quel che c’è in cartellone a Vicenza Jazz è tutto Jazz, questo si. Quest’anno si festeggia il centenario della poetessa polacca e Francesca Fornari e Marco Fazzini hanno portato qui uno spettacolo multiforme in cui si alternano la voce recitante di Michele Silvestrin ed il pianoforte di Carlo Morena. Wislawa Szymborska cresce in una famiglia con tradizioni patriottiche e insurrezionali, frequenta la scuola elementare delle migliori famiglie di Cracovia. Intorno ai dieci anni comincia ad andare al cinema e racconta la sua prima esperienza sentimentale in una poesia. Nel 1935 viene iscritta al liceo delle Orsoline; cominciano allora i primi dubbi. Nel 1951 si iscrive al partito comunista. Szymborska esordisce ufficialmente come poetessa nel 1952, con il suo primo volume di versi Dlatego zyjemy” (Per questo viviamo). Nel 1966, come segno di solidarietà in occasione dell’espulsione del filosofo Leszek Kolakowski, restituisce la tessera al partito comunista. È un passo decisivo che mette a rischio il suo posto di lavoro. Inizia una lotta per la libertà dall’incubo del regime, e lo fa come militante e come poetessa. Usa l’ironia, arma liberatrice, e molte sue poesie vengono musicate.
Poesia e musica protagonisti anche Alle Colonne in Piazza dei Signori dove si è cercato di accostare Édith Piaf al vino francese, ça va sans dire. La chiamavano “passerotto” per la sua statura minuta (passerotto infatti nel francese popolare si dice piaf) e nonostante le molte tragedie che costellarono la sua vita, Piaf viene ricordata come una personalità solare, estroversa, dalle mille sfaccettature, estremamente acculturata e sensibile. È altresì definita la “mecenate di Parigi”, per le frequentazioni di altissimo livello e le amicizie con i più alti esponenti artistici, letterari, musicali, filosofici e culturali del secolo. La sua è stata “une vie en blue” e quel blu è l’animo rotto che si innalza col canto, quello spirito triste che esplode di gioia. Come gli schiavi dell’ottocento, come i neri delle opere di Wilson, come la poesia di una polacca troppo colma di vita per vivere sotto ad un regime infame. Il jazz sprigiona questa forza che rompe le catene, che permette di poter dire: “siamo tutti neri, siamo tutti schiavi, siamo tutti sofferenti”, come Édith Piaf, che scriveva i testi delle sue canzoni e diceva: No, niente di niente | Non rinnego niente | Né il bene che mi hanno fatto, né il male | Per me pari sono. Ah, dimenticavo, il vino era buono!
Già detto dello spettacolo delle 20.30 al Teatro Astra, andiamo alla chiusura della serata e finalmente ci troviamo al Bar Borsa. Dico finalmente perché il Borsa è storia del Vicenza Jazz. In questi 27 anni ha più volte ospitato i concerti del jazz cafe Trivellato, e comunque è sempre stato baricentro logistico della manifestazione essendo un jazz club di decennale impegno con un livello sempre medio alto. Ieri sera, per chiudere degnamente una giornata dedicata al jazz “altro”, in programma c’era un po’ di Brasile e anche qui c’era poesia. Gilberto Gil infatti non è solo un grande musicista ma quando pensi a lui ti vengono subito in mente la sua intelligenza e la sua cultura che lo hanno portato a diventare Ministro della Cultura del governo brasiliano. Il “tropicalismo” tipico della sua musica è stato portato al Borsa dalla band “Viva Gil” con Silvia Donati alla voce, Daniele Santimone alla chitarra, Paolo Andriolo al basso e Roberto Rossi a Batteria e percussioni. La fine festosa di una giornata che ha fatto di Vicenza una docile fibra del villaggio globale.