Vicenza Jazz 2023, giorno 1. Come rain or come shine.

“S’incomincia con un temporale”. È l’incipit di “Libera nos a malo” di Luigi Meneghello, un pezzo di storia vicentina. Ormai anche il Vicenza Jazz è parte del nostro essere, un appuntamento che arriva alla ventisettesima edizione e ha letteralmente visto crescere una generazione. Ma l’inizio del romanzo di Meneghello ieri non tornava in mente solo come metafora collante tra le arti e le identità, ma proprio perché il festival quest’anno incomincia con un temporale. Una pioggia fitta, continua, fastidiosa e carogna, ci saluta dal primo mattino. Quando organizzi eventi all’aperto passi il tuo tempo con un occhio alle app meteo e un altro al cielo. Scalogna vuole che quest’anno pare che l’acqua sia protagonista almeno in questi primi giorni. Ma lo spettacolo andrà avanti, che piova o ci sia il sole.

Quando Harold Arlen e Johnny Mercer scrissero “Come rain or come shine” per il musical “St. Louis Woman” nel 1946, non sapevano sarebbe diventata un classico senza tempo. Billie Holiday, Art Blakey, Bill Evans, Oscar Peterson, Ella Fitzgerald, Frank Sinatra furono tra i moltissimi a riproporla. A noi piace forse di più la versione di Ray Charles, così caracollante e trasudante romanticismo. “Ti amerò come nessun altro può, che piova o ci sia il sole”. Ci pare calzi a pennello.

Da cartellone, l’edizione 2023 del festival inizia il 10 maggio e termina il 21. Oggi, mercoledì, il primo appuntamento doveva essere con Hammondelic Trio alla Meneghina verso le 18. Inutile dire che ci siamo limitati a salutare e sperare di rivederci presto. Niente da fare. Gli imprevisti sono incidenti accettabili per chi vive di musica. Nel jazz possono anche tradursi musicalmente sotto forma di sincopi, salti nel vuoto dentro all’improvvisazione. La bellezza (una delle) del jazz sta nel somigliare maledettamente alla vita vera, o almeno ad una vita vissuta fino in fondo. Jazz è cavarsela sempre, è soffrire, è consolarsi, è improvvisare (of course), è l’eleganza del bohémien, è letteratura, è America, quella reale e quella che rimane luogo dell’animo. Jazz è anche un bicchiere di bourbon e fumo denso di sigaretta, anche se qui saranno più calici di vino e birra in questi dieci giorni. E a proposito di birra, alle 19.30 siamo al Bamburgher e ci accolgono col sorriso mentre noi ci scacciamo la pioggia dalla giacca.

Il Vicenza Jazz non è concerti e teatri e jam session. O perlomeno non è solo questo. Il Vicenza Jazz è relazioni, incontri, giri perenni tra la città e i suoi locali. Il Vicenza Jazz è quel periodo dell’anno in cui improvvisamente anche questo borgo sonnolento pare destarsi e fiorire. Come il diavolo, anche il festival è nei dettagli. Nei brindisi a tarda notte, nel suo itinerante trottolare dentro ad un programma vastissimo, negli aficionados del jazz cafè trivellato che ogni sera, come rain or come shine, timbrano il cartellino, nel pubblico della messa cantata dell’olimpico. Il Vicenza Jazz è una botta di vita che ci fa capire quanto bello sarebbe vivere in una città attrattiva così 12 mesi l’anno.

Non sarà tanto jazz, ma a noi l’ufficialità piace, quindi secondo cartellone, la prima giornata del festival finisce con l’essere aperta dal Riccardo Achille Ronzani Duo al Bamburgher. Pianoforte, voce e chitarra, per un risultato di raffinata ricerca timbrica.

Alle 21, al Teatro San Marco è la volta del Maurizio Mecenero Quintet. Qui siamo dalle parti della fusion. Incontriamo il leader nei camerini prima dello showtime. Gli chiediamo la differenza tra portare materiale proprio o degli standard. “Non è una provocazione – dice Maurizio – però un modo per lasciare un segno. Il mio concetto di jazz è molto vicino a quello di Miles Davis, ovvero molto ma molto largo. Certo che proporre musica fusion originale in Italia oggi è un’impresa”. A questo punto Mecenero se ne esce con una frase che probabilmente potrebbe diventare il mantra di quest’edizione ma non solo. Alla domanda: “quanto difficile è inserirsi nei circuiti concertistici per voi?” la risposta è: “Fosse difficile sarebbe già qualcosa!”. Maurizio ci dice che “gli aiuti sono rari e l’unica strada è l’autogestione”. Chiudiamo con la domanda tormentone: “i 3 dischi jazz che salveresti da una guerra nucleare”. Risposta: Kind Of Blue, First Circle (Pat Metheny) e il Koln Concert.

Seguiremo il festival ogni giorno, in ogni sua sfumatura, anche in quelle di costume, dentro sia alla Vicenza mondana che a quella che offre grandi artisti e professionisti che ogni anno contribuiscono a fare di questo appuntamento qualcosa di unico. Seguiteci, che piova o ci sia il sole.

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