Ceramiche raku. Una personale di Nadir Basso

Apre domani presso “L’idea di Luisa Amatori” in Piazza dei Signori a Vicenza, la mostra di Nadir Basso e delle sue opere in ceramica. Basso è stato prima teatrante e poi libraio ed è stato ceramista e decoratore nel laboratorio del padre, Gianbattista Basso, che gli ha trasmesso il suo sapere legato alla ceramica tradizionale. Si dedica alla ceramica a tempo pieno da una decina d’anni e (ri)scopre la ceramica raku – avvicinata nei primi del 2000 grazie ad un maestro padovano – all’inizio della pandemia. Ne perfeziona la tecnica e ne approfondisce lo spirito sotto le cure di Nico Toniolo, maestro ceramista per anni sodale di Alessio Tasca. Trova in questa declinazione del fare ceramico un proprio dàimon buono, un luogo dove far convergere l’interesse coltivato negli anni per pratiche e saperi dell’oriente estremo (come lo shodō e il pensiero zen) che condividono con la ceramica raku (raku significa letteralmente ‘gioire il momento’) un’attitudine, una filosofia e un’estetica radicalmente ‘altre’ rispetto alle nostre – e per questo profondamente affascinanti. Ha esposto alcuni sui lavori in una collettanea ospitata dalla Galleria ‘The Soul In The Mirror’ di Vicenza nel 2016.

Riportiamo, di seguito, il testo scritto per lui dalla curatrice Petra Cason Olivares

APNEE CANGIANTI

C’è una fase, nel processo antichissimo di creazione delle ceramiche raku, che più di ogni altra mi affascina. Non è tanto nella scelta accurata della materia prima, quell’argilla purissima che nell’antico Giappone veniva cavata solo in determinate zone del Paese. Non è nemmeno il momento in cui la creta morbida viene plasmata dal vasaio, con il primo e più importante strumento che l’Uomo da tempi immemori possiede, le sue stesse mani. Non è nemmeno la stesura attenta degli smalti sulla superficie levigata del manufatto, dopo che i quasi mille gradi del fuoco hanno reso salda la materia, stabile la forma. È, invece, quel momento in cui il vaso entra, per un lungo istante, in apnea. Nella pratica raku, la ceramica dipinta torna per una seconda volta nella cavità incandescente del forno, finché il vasaio non la estrae. È qui che tutto cambia: il manufatto viene deposto su del materiale combustibile (foglie secche, carta, segatura…) che, infiammandosi a contatto con la ceramica incandescente, ruba all’aria ossigeno, creando la “trasformazione alchemica”. In questa apnea – una pausa dal “respiro” del vaso – la ceramica assume l’aura che è tipica della produzione raku: l’aspetto cangiante della sua superficie traslucida, la craquelure che scompone in piccolissime frazioni la sua patina adamantina, il nero fumo che tinge le parti prive di smalti. Il fuoco e l’aria rarefatta concorrono alla trasmutazione chimica degli smalti. Qui il ceramista non ha più potere: la sapienza si inchina al caso, il vero elemento che determina l’aspetto finale dell’opera.

Come spesso avviene per gli insegnamenti che provengono dalla cultura orientale, anche la tecnica raku si è aperta, nei secoli, alle suggestioni provenienti da altri mondi, da contesti anche lontanissimi dal Giappone delle origini, che hanno fatto sì che la pratica non si limitasse al pedissequo rispetto della tradizione, ma integrasse in sé la spinta inesausta del rinnovamento. Nadir Basso condensa, nella sua personale pratica, la conoscenza della tecnica ceramica della tradizione a noi geograficamente più vicina: la sua è una famiglia di ceramisti contigua alla scuola di Nove e Bassano, e la sua formazione ricalca la via intrapresa dai grandi maestri ceramisti del secolo scorso. Ma la pratica non è che una parte della ricerca. Una ricerca quotidiana si rivela nell’azione ponderata che accompagna ogni singolo giorno attraverso la cura per le cose semplici, raffinate, sobrie: una sorta di dáimōn – lo spirito guida, il silenzioso compagno di viaggio che nelle culture orientali svela la nostra vera vocazione – sembra manifestarsi appieno, quando a fianco della ceramica raku, Nadir dedica il suo tempo alla meditazione zen o all’arte della calligrafia giapponese, lo shodō. Una filosofia di vita.

“Ānanda, tra gli elementi interconnessi che hanno fatto sì che la ciotola esista, vedi l’acqua?”
“Certo, signore. Il vasaio ha avuto bisogno di acqua per impastare l’argilla e modellare la
ciotola”.
“Dunque l’esistenza della ciotola dipende dall’esistenza dell’acqua. Inoltre, Ānanda, vedi
l’elemento fuoco?”
“Certo, signore. E’ stato necessario il fuoco per cuocere l’argilla, dunque vedo in essa fuoco
e calore”.
“Che altro vedi?”
“Vedo aria senza la quale il fuoco non si sarebbe acceso e il vasaio non avrebbe respirato.
Vedo il vasaio e l’abilità delle sue mani. Vedo la sua coscienza. Vedo il forno e la legna che
l’ha alimentato. Vedo gli alberi che hanno fornito la legna. Vedo la pioggia, il sole e la terra
che hanno fatto crescere gli alberi. Signore, vedo migliaia di elementi interconnessi che
hanno concorso alla formazione di questa ciotola”.

Aggiungo io: vedo i tanti viaggi compiuti, i molti libri letti, e così i volti incrociati, le lingue udite e parlate, l’arte osservata e imparata, di culture e popoli vicini e lontani. La “mescla”, dal portoghese “miscuglio”, è ciò che compone ogni singolo manufatto realizzato da Nadir Basso. Esperienze allo stato solido, dalla superficie cangiante, ognuna delle quali attinge, anche nei nomi, al bacino di diverse cosmogonie e mitologie. Ogni sua opera ceramica è una storia, che valica dalla cultura greca a quella persiana, alla
shintoista.

“Mi è piaciuto pescare lì in ragione di una risonanza che cercavo tra le forme vagamente arcaiche ed esotiche di alcuni miei manufatti e l’orizzonte di alterità – nello spazio e nel tempo – a cui quei nomi stessi rimandano. Spesso sono divinità che presiedono a qualche ambito del mondo naturale – e sappiamo quanto conti la natura nell’orizzonte estetico delle pratiche orientali, ceramica raku compresa”, scrive l’Artista. Un oggetto piccolo, apparentemente insignificante, come una tazza da tè, è all’origine di una storia lunga oltre cinque secoli la quale, uscita silenziosamente dai confini spaziali e temporali del Giappone antico, si è ramificata come un albero dalle fronde rigogliose. Più scende nelle profondità del terreno, e più è in grado di estendersi, espandersi, allargarsi, fino a dare vita a una genealogia che unisce gli essenziali elementi alchemici: la terra, il fuoco, l’acqua. L’aria. Se in una notte stellata tenessimo nell’incavo di una mano la giusta quantità d’acqua per colmare la misura, e guardassimo al piccolo specchio liquido con occhi attenti, potremmo scorgere l’intero universo. Avremmo tra le mani ciò che basta. Il tutto.

Foto di Veronica Mariani

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