Il giorno della memoria e le pietre d’inciampo

Il Giorno della Memoria ricorda il 27 gennaio 1945, data della liberazione del campo di sterminio di Auschwitz e della scoperta del dramma della Shoah e dell’Olocausto. Quel giorno è stato simbolicamente scelto per commemorare una tragedia enorme, ma anche per coltivare la memoria contro l’indifferenza e le ingiustizie. Oggi, tra le altre iniziative cittadine, sono state posate quattro pietre d’inciampo per ricordare altrettanti martiri dell’olocausto. Ma che cos’è una pietra d’inciampo?

Si tratta di un progetto monumentale europeo per tenere viva la Memoria di tutti i deportati nei campi di concentramento e di sterminio nazisti che non hanno fatto ritorno alle loro case. Un piccolo blocco quadrato di pietra (10×10 cm), ricoperto di ottone lucente posto davanti la porta della casa nella quale ebbe ultima residenza un deportato nei campi di sterminio nazisti (laddove questo è possibile ovviamente, altrimenti il luogo diventa solo simbolico): ne ricorda il nome, l’anno di nascita, il giorno e il luogo di deportazione, la data della morte. In Europa ne sono state installate già oltre 70.000, la prima a Colonia, in Germania, nel 1995; sono le “Pietre d’Inciampo”Stolpersteine, in tedesco, iniziativa creata dall’artista Gunter Demnig (nato a Berlino nel 1947) come reazione a ogni forma di negazionismo e di oblio, al fine di ricordare tutte le vittime del Nazional-Socialismo, che per qualsiasi motivo siano state perseguitate: religione, razza, idee politiche, orientamenti sessuali.

A Vicenza oggi ne sono state posate, come dicevamo, quattro:  in contra’ Santa Corona 25 si ricorderanno Torquato e Franco Fraccon, in piazza delle Erbe 45 Carlo Crico e in contra’ Porta Santa Lucia 44, Piero Franco. Per due di queste persone abbiamo una dettagliata biografia e ci sembra doveroso ricordarli qui.

Torquato Fraccon

Torquato Fraccon nacque a Pontecchio Polesine, in provincia di Rovigo, il 29 dicembre 1887. Si iscrisse giovanissimo al circolo San Francesco di Rovigo, fondato da mons. Schirollo, il più attivo della diocesi. Nel 1904 partecipò a un convegno della Democrazia cristiana, allargando le prospettive della sua militanza. Dopo aver partecipato alla I Guerra mondiale, si iscrisse al Partito popolare italiano. Lavorò prima presso il Credito Polesano a Rovigo, poi, dopo la chiusura dell’istituto in seguito all’intervento fascista, grazie all’amministratore Secondo Piovesan, passò alla Banca Cattolica del Veneto di Vicenza. Del resto F. era stato aggredito due volte dalle camicie nere. Sposato con Isabella Ghirardato nel 1921, ebbe come figli Graziella, Franco e Letizia, che avrebbero avuto un ruolo nella Resistenza vicentina. Durante gli anni del regime, non si piegò alla fascistizzazione della nazione, mantenendo contatti con altri antifascisti più giovani, come Neri Pozza, Antonio Barolini e Antonio Giuriolo. In seguito all’armistizio dell’8 settembre 1943, F. aiutò numerosi prigionieri alleati fuggiti dai campi di prigionia, perseguitati politici ed ebrei, procurandogli documenti d’identità contraffatti e accompagnandoli al confine per passare in Svizzera. Punto di riferimento della Democrazia cristiana di Vicenza, fu tra i promotori del Comitato di liberazione nazionale provinciale. Il 7 gennaio del 1944 fu arrestato e interrogato nella caserma Capparozzo con l’accusa del salvataggio dei perseguitati compiuto fino ad allora. Trasferito al carcere dei Paolotti di Padova, e poi a quello di Santa Maria Maggiore di Venezia, subendo un nuovo interrogatorio, nel successivo marzo fu rilasciato dopo aver sottoscritto la diffida a non impegnarsi più nell’opera contestata. Riacquisita la libertà, F. continuò, tuttavia, nella Resistenza. Dopo aver intensificato i contatti con il Comitato di liberazione nazionale regionale, infatti, sostenne, cercando innanzitutto fondi, il battaglione autonomo Valdagno, comandato dal fidato Gino Soldà, che lo aveva aiutato nell’espatrio degli ebrei. Il fucino Michele Peroni, appartenente alla formazione partigiana, descrisse in questi termini l’incontro in montagna: «Mi stupii come una persona dall’aspetto così pacato, vorrei dire austero, potesse essere venuto lassù tra i monti in mezzo a noi partigiani, che della vita normale sembrava avessimo perduto la fisionomia. Mi fu detto il suo nome e mi ricordai allora di tanti particolari che mi erano stati confidati e che lo indicavano come un eroe da leggenda, un carbonaro che cospirava attivamente per tutti noi, per l’Italia». F. fu anche tra i fondatori, nel giugno del 1944, del foglio clandestino della Democrazia cristiana «Il Momento». Nel numero del 6 agosto dello stesso anno scrisse: «Quello che abbiano fatto e stiamo facendo, è giusto sia conosciuto: non per voler correre alla bilancia dei meriti, ma per difenderci dalle accuse di inattività. Che sia poco lo sappiamo – mai si dona sufficientemente alla Patria –, ma che sia inferiore al contributo di altri ci sia permesso di discutere». Allargando il ventaglio delle scelte, ricordava quanto aveva anche personalmente compiuto, che era pur sempre una «forma di azione minuta e silenziosa», non immune da rischi rispetto alla cospirazione armata, che comunque aveva la funzione di «rieducazione sociale e morale delle masse», per poi concludere: «È la charitas, questo fuoco cristiano, a sostenere l’azione, a fare ignorare il sacrificio. Per essa ci siamo permessi di dire che tale opera di assistenza, di resistenza, di rieducazione ritorna quasi esclusivamente da un attivo nostro: non volendo per nulla sminuire quanto gli altri possono aver fatto indipendentemente e forse meglio di noi. Solo intendiamo asserire di essere stati i primi ed essere tuttora in questo campo i più tenaci lavoratori: così come nessuno – speriamo – ci potrà negare il riconoscimento d’essere stati sempre, e più in quest’ora di travaglio, i primi e più tenaci assertori dell’amore come presupposto indispensabile di pace e di ordine». Dopo aver partecipato alla discussione che portò all’opuscolo clandestino Essenza e programma della Democrazia cristiana, che ebbe come artefice principale Gavino Sabadin, contribuì sensibilmente alla diffusione, organizzando i recapiti clandestini. La mattina del 26 ottobre 1944, mentre ospitava anche altre personalità compromesse, la sua casa fu circondata in un blitz che portò all’arresto dell’intera famiglia. Condotti tutti e cinque al carcere di San Biagio a Vicenza, furono in seguito separati: mentre la moglie e le figlie rimasero nella struttura, F. fu condotto nella caserma San Michele e poi nella sede dell’Ufficio politico investigativo, dove fu interrogato e torturato, e Franco fu portato alla caserma Sasso. Riportato al primo luogo di detenzione, dopo alcuni giorni insieme al figlio e ad altri prigionieri fu trasportato al campo di concentramento di Gries nei pressi di Bolzano e di lì deportato al lager di Mauthausen, dove morì l’8 maggio 1945.

Torquato Fraccon

Con decreto ufficiale del 19 maggio 1950, a F. venne tributata la medaglia d’argento al valor militare alla memoria con la qualifica di partigiano combattente con la seguente motivazione: «Promotore della resistenza partigiana nella provincia di Vicenza, rese preziosi servizi alla lotta di liberazione come organizzatore e come combattente. Arrestato una prima volta e successivamente rilasciato per fortunate contingenze, non esitò a riprendere il suo posto di combattente con rinnovata energia ed esemplare ardimento. Arrestato nuovamente – e questa volta insieme con la famiglia – sopportò eroicamente maltrattamenti e sevizie, nulla rivelando. Internato insieme al figlio in un campo di annientamento, si spense subito dopo la fine delle ostilità, fiero sino all’estremo respiro. Esempio luminoso di fede e di dedizione alla causa della libertà e della Patria».

Nel 1955, l’Unione delle comunità ebraiche italiane conferì a Torquato e Franco Fraccon la medaglia d’oro alla memoria, in riconoscimento all’opera prestata in favore degli ebrei. Il 31 maggio del 1978, Yad Vashem riconobbe Torquato Fraccon come giusto tra le nazioni.

Franco Fraccon

Franco Fraccon nacque a Rovigo il 24 ottobre 1924 da Torquato, bancario, e da Isabella Ghirardato, casalinga, secondogenito di tre figli, i quali avrebbero tutti partecipato alla Resistenza. Per lo spostamento del lavoro del padre, nel 1925 la famiglia fu costretta a trasferirsi a Vicenza, dove F. frequentò le elementari e il ginnasio, per poi proseguire gli studi al liceo «Antonio Piagafetta», conseguendo la maturità nel 1943 con la nota del preside che attestava il «rapporto di contegno indisciplinato e rifiuto di obbedienza, fatto dalla G.I.L.», l’organizzazione giovanile fascista. Si inserì presto nella Gioventù italiana di Azione cattolica, divenendo, in stretta collaborazione con l’assistente don Vincenzo Borsato, delegato diocesano studenti. Iscrittosi alla Facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Padova, proseguì la militanza nell’Azione cattolica attraverso la Fuci. In seguito all’armistizio di Cassibile, decise di non rispondere al bando di chiamata alle armi del 9 novembre 1943 e si nascose a Valli di Pasubio, presso don Mario Bolfe, professore di religione al liceo frequentato e vicino alla Fuci femminile, il quale collaborò con il padre nel soccorso agli ebrei. Anche F. cooperò alla rete predisposta dal genitore, aiutando a preparare, grazie alla passione per la fotografia, documenti contraffatti. Raggiunto dalla sorella Graziella nell’abitazione dove si era rifugiato, insistette perché ella si adoperasse presso il padre per convincerlo ad accordargli il permesso di potersi unire ai partigiani. Appena Torquato Fraccon, il quale aveva atteso la costituzione della formazione militare che andava organizzando, gli fece sapere la risposta positiva, anche per lui arrivò il momento della scelta definitiva della Resistenza. La lotta armata durò, tuttavia, poco più dell’estate. La mattina del 26 ottobre 1944, mentre nella casa di famiglia erano ospitate anche altre personalità compromesse, la sua abitazione fu circondata in un blitz che portò all’arresto dell’intera famiglia. Condotti tutti e cinque al carcere di San Biagio a Vicenza, furono in seguito separati: mentre la madre e le sorelle rimasero nella struttura e il padre fu portato nella sede dell’Ufficio politico investigativo, F. fu condotto nella caserma San Michele e poi nella caserma Sasso, dove fu interrogato e torturato, senza rivelare nessuna informazione agli aguzzini. Dopo aver rifiutato la proposta di fuga per evitare ritorsioni sulla famiglia, fu riportato al primo luogo di detenzione e, dopo alcuni giorni, insieme al padre e ad altri prigionieri fu trasportato al campo di concentramento di Gries nei pressi di Bolzano e di lì deportato al lager di Mauthausen. Identificato con il numero tatuato 115.500, nell’internamento, secondo la memoria dei pochissimi sopravvissuti, offrì «testimonianza dell’eroismo cristiano», morendo il 4 maggio 1945.

Franco Fraccon

I lavori dell’apposita commissione dell’Università di Padova, che si riunì il 21 marzo 1947, terminarono con il conferimento della laurea honoris causa in Medicina l’11 giugno successivo.

Con decreto ufficiale del 19 maggio 1950, a F. venne tributata la medaglia d’argento al valor militare con la qualifica di partigiano combattente con la seguente motivazione: «Giovane patriota animoso ed entusiasta, si prodigò nella lotta partigiana fornendo ripetute e sicure prove di valore. Arrestato, sopportò con fermezza maltrattamenti e sevizie nulla rivelando di quanto a sua conoscenza sulla organizzazione. Internato, insieme con il padre, in un campo di annientamento, diede belle prove di forza di animo e di altruismo privandosi più volte delle misere razioni per soccorrere i compagni. Stremato dalle sofferenze e dalle fatiche, si spense, precedendo di pochi giorni, nelle fosse di Mathausen [sic], il valoroso padre suo al quale era stato unito nella lotta e nella prigionia».

Nel 1955, l’Unione delle comunità ebraiche italiane conferì a Torquato e Franco Fraccon la medaglia d’oro alla memoria, in riconoscimento all’opera prestata in favore degli ebrei.

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