Dmitrij Šostakovič è la Russia del novecento. La sua complessità, il suo dramma, la musica e la biografia che si mescolano alla storia di un paese enorme e disperato, orgoglioso e forte, devastato eppure mai vinto fino in fondo. I compositori russi hanno sempre avuto un rapporto molto particolare con la madrepatria. Nel 1856 nacque il “gruppo dei cinque”, formato da Modest Musorgskij, Nicolaj Rimskij-Korsakov, Milij Balakirev, Cezar Kiuj e Aleksandr Borodin. In qualche modo li teneva uniti anche il mito, che loro stessi avevano creato, di un movimento musicale che fosse autenticamente russo, più vicino alla madrepatria di quanto non lo fossero i prodotti delle accademie classiche. Lo stile è russo fino al midollo e lo si percepisce attraverso il ricorso a temi folkloristici, e al fatto che le composizioni siano concentrate nel ripristinare fedelmente il colore locale. Fu, in sostanza, il romanticismo russo, ripieno di tradizione e di afflati drammatici e al contempo fiabeschi come in “Una notte sul monte calvo” di Musorgskij o nella celeberrima “Sherazade” di Rimskij-Korsakov. In contrasto con questo movimento nazionalista, si sviluppava la folgorante eppur straziante vita e carriera di Pëtr Il’ič Čajkovskij, il più europeo tra i russi. Costretto a nascondere la propria omosessualità, probabilmente morì suicida, dopo aver composto quel capolavoro assoluto che è la sesta sinfonia, nota come la “Patetica”. La Russia per lui fu il paese delle privazioni, dei divieti e delle ostilità, che lo portarono a concepire una visione fatalista della vita. La grande Russia che negli stessi anni dava all’umanità il genio di Fëdor Michajlovič Dostoevskij e di Lev Nikolàevič Tolstòj, forse i più grandi romanzieri di ogni tempo. Oggi quando pensiamo alla Russia di Putin non dovremmo mai dimenticare cos’è stato quel paese nei secoli e soprattutto che immensa cultura abbia prodotto nonostante gli zar, nonostante il comunismo, nonostante Stalin, e sicuramente nonostante Vladimir Putin.
In quest’ottica sentire Šostakóvič, interpretato dalla OTO diretta impeccabilmente da Filippo Lama, è stato particolarmente emozionante. Šostakovič ebbe un travagliato rapporto con il governo sovietico: subì infatti due denunce ufficiali a causa delle sue composizioni (la prima nel 1936, la seconda nel 1948) e i suoi lavori furono periodicamente censurati. La sua totale riabilitazione avvenne solamente dopo la morte di Stalin, e culminò con la sua elezione al Consiglio supremo sovietico e con la sua nomina ad ambasciatore dell’URSS in importanti eventi culturali di tutto il mondo. La sua musica è sempre stata la rappresentazione sonora delle sue lotte interiori. I numerosissimi attacchi che subì in vita, erano dovuti al desiderio, da parte del regime, di fiaccare tutto quello che non poteva essere “compreso senza sforzo dalle masse”. Il suo impeto avanguardista veniva costantemente contrastato dalla burocrazia totalitaria sovietica. A partire dall’avvento di Chruščëv, riprese a godere i favori del regime sovietico e morì nel 1975, considerato finalmente come un gigante del ventesimo secolo.
L’orchestra del teatro olimpico, con Filippo Lama, ha reso magistralmente la “Sinfonia da camera, op.110” ed ha trasmesso la profonda tensione emotiva della composizione, la cui storia vale la pena di essere raccontata. Nel luglio i960, il governo sovietico chiese a Sostakovic di recarsi nella Germania dell’Est, per seguire il gruppo di cineasti impegnati nella realizzazione del film Cinque giorni – cinque notti, 1960, per il quale il compositore avrebbe scritto le musiche. Le riprese si svolsero a Dresda, dove Sostakovic ebbe modo di constatare con i suoi occhi le conseguenze del nazismo e della Seconda Guerra Mondiale: una città devastata, rasa al suolo dai bombardamenti inglesi ed americani appoggiati dall’Unione Sovietica. L’esperienza lo turbò profondamente, e spontaneo fu per lui tentare di esprimere il proprio stato emotivo tramite una composizione musicale. Riportando drammaticamente in vita quel grido di lutto personale e dolore già udito in altre composizioni, inesorabilmente il Quartetto prese forma, suggellato da una significativa dedica: “Alle vittime del fascismo e della guerra”. La sinfonia fu talmente importante per l’autore che venne eseguita durante i suoi funerali su indicazione dello stesso compositore, acquisendo così definitivamente un deciso spirito commemorativo, rafforzato anche da queste lapidarie parole: “Provo eterno dolore per coloro che furono uccisi da Hitler, ma non sono meno turbato nei confronti di chi morì su comando di Stalin. Soffro per tutti coloro che furono torturati, fucilati, o lasciati morire di fame. Molte delle mie Sinfonie sono pietre tombali. Troppi della nostra gente sono morti e sono stati sepolti in posti ignoti a chiunque, persino ai loro parenti. Dove mettere le lapidi? Solo la musica può farlo per loro. Vorrei scrivere una composizione per ciascuno dei caduti, ma non sono in grado di farlo, e questo è il solo motivo per cui io dedico la mia musica a tutti loro”.