Minosse aveva un problema ed era bello grosso. Il Minotauro non solo non era il figlio che desiderava da Pasifae, ma rappresentava il simbolo dell’ira di Poseidone contro di lui. Serviva un rimedio. E così entrò in campo Dedalo, grande architetto, scultore e inventore, che costruì per Minosse il labirinto in cui nascondere il Minotauro.
Per ALA Assoarchitetti questa storia è la prima testimonianza del premio che hanno fondato 25 anni fa: il premio Dedalo Minosse. L’idea dell’architetto Bruno Gabbiani era di rendere protagonisti i committenti. Di raccontare cosa c’è dietro ad un’opera architettonica. Il rapporto tra cliente e architetto, l’intuizione iniziale, lo sviluppo attraverso una collaborazione coerente. Si tende infatti a dimenticare come rarissimamente un qualsiasi edificio sia frutto solo dell’estro del suo progettista, ma sia figlio di necessità o volontà di chi lo commissiona. L’unione tra committente e architetto è un tutt’uno, è il fulcro della missione del Dedalo Minosse. Insieme a queste figure, vengono messe in risalto anche le imprese e le pubbliche amministrazioni coinvolte, per chiudere così il cerchio attorno all’opera finita. Nato nel 1997, con cadenza biennale, è arrivato alla dodicesima edizione (il covid ha causato uno slittamento): la mostra delle opere premiate è ancora visitabile in Basilica Palladiana fino alla chiusura del 2 ottobre. Abbiamo incontrato Marcella Gabbiani, direttore del premio.
Questa è la dodicesima edizione. Che bilancio possiamo fare di questi 25 anni? Com’è cambiata l’architettura?
Siamo partiti a fine anni novanta in un momento di grande entusiasmo del real estate e degli archistar con progetti iconici che finivano sulle riviste. Poi è arrivata la crisi e da lì in poi i progetti sono molto cambiati. Il nostro osservatorio è piccolo ma qualificato e notiamo che con il passare degli anni i progetti sono diventatati più attenti all’ambiente e dialogano più con le PA e con la cittadinanza. Le città sono più numerose, ci sono urgenze di tipo sociale e quindi i paradigmi sono mutati. In Italia forse c’è il tema opposto con spazi abbandonati e centri storici che hanno bisogno di riqualificazioni. In ogni caso, in generale c’è più attenzione all’aspetto pubblico.
Questo cambiamento ha inciso anche sulla qualità “artistica”?
Forse il grande gesto è oggi meno in voga. Anche le figure che hanno portato avanti la Biennale di Venezia sono ormai orientate sui temi sociali e di sostenibilità. Non è comunque una novità, pure Palladio era legato agli aspetti economici. Dedalo Minosse, essendo premio alla committenza, nota molto di più il fatto che l’architettura è figlia del suo tempo e delle necessità economiche, sociali e lavorative. Abbiamo avuto una tecnologia per cui pensavamo di poter fare tutto ma ci siamo dimenticati delle basi del passato.
Com’è cresciuta la dimensione del premio in questi anni?
Nato come premio triveneto nel ’97, diventa nazionale nel ’99 e nel 2001 grazie anche alla rivista L’Arca il premio raggiunge lo status internazionale. In questo modo ha lanciato anche la progettazione italiana grazie al confronto col resto del mondo. L’architettura è lenta per sua costituzione quindi serve un bacino geografico di riferimento oltre al fatto che un dibattito aperto aiuta tutto il sistema.
La mostra è per addetti ai lavori o è consigliabile anche ad un semplice curioso?
In Basilica si possono vedere molte foto e video, e l’obiettivo è di fornire anche delle audioguide dalla prossima edizione. Nel catalogo vengono raccontate delle storie che ci fanno capire che tutti siamo potenziali committenti e quindi bisogna comprendere perché un edificio è fatto in un certo modo. Quindi la risposta è no, non è affatto una mostra di architettura solo per addetti ai lavori.
Da architetto, esiste un’architettura prettamente vicentina?
Di fatto a Vicenza, come in tutta Italia, il focus è sempre sulla conservazione. Esisterebbe il tema delle periferie in cui c’è tanto da lavorare, ma passa attraverso la politica e altre mille cose per cui servirebbe una programmazione nazionale. Adesso col PNRR si spera si prenda una strada virtuosa. Non so se esiste un’architettura vicentina perché comunque rientra sempre nella corrente italiana e non ha una cifra distintiva. Vicenza è e rimane elegante, almeno fino a Scarpa (che non era vicentino). Vicenza è teatrale, non ha grandi palazzi. La sua identità è nobile ed elegante.