L’avete vista mille volte la sua bottega, scendendo dal cavalcavia che da Viale della Pace vi porta verso Corso Padova. Lì, sulla sinistra, si staglia la casa rossa e in primo piano ci sono le statue. Angeli, veneri, dei, che vi guardano mentre voi siete fermi al semaforo. Una sorta di “benvenuti in centro” detto da discreti amici di pietra. Quella di Ilario Trevelin è una delle più storiche botteghe della città ed esiste da oltre cent’anni. Ma sta arrivando al capolinea e quello in corso rischia seriamente di essere l’ultimo anno di attività. Non che la passione non ci sia più e nemmeno il lavoro, visto che gli ordini arrivano senza sosta. Ma il tempo usura l’uomo, e la modernità non garantisce la stessa devozione alle nuove generazioni. Parliamo di un lavoro sporco, faticoso, che però prevede una grande dote di creatività, di spirito artistico, di conoscenza storica, di attenzione all’uomo in ogni sua forma e di rispetto per la materia con cui si opera. Un lavoro antichissimo e di estrema nobiltà.

“Scultori senza arte” è l’appellativo con il quale, per molti secoli, gli scalpellini di mezzo mondo hanno dovuto convivere. Infatti, a partire dall’epoca delle Grandi Piramidi degli Egizi, passando per il Rinascimento fiorentino e arrivando, passo dopo passo, ai giorni nostri, gli scalpellini sono stati definiti come “operai di cava che tagliano la pietra e la lavorano con le punte e lo scalpello per costruire opere in serie. L’unica arte che è attribuita loro è quella di conoscere il materiale che trasformano…”.Pensando, invece, alle nostre città, gli scalpellini si sono resi protagonisti nella realizzazione di piazze, palazzi, fontane, pilastri, capitelli, alcuni dei quali di notevole pregio. Quello che invece dovrebbe essere detto è che lo scalpellino in realtà è, a tutti gli effetti, uno scultore. “Scalpellino è un termine che ha senso perché chiamavano così anche Palladio. Era quello che faceva la balaustra, le sagome, gli archi e le colonne. Lo scultore invece faceva le stature e il decoratore le finiva. Quindi, se non son scultore mi, non lo xe nessun”, dice Ilario.

“Il lavoro l’ho imparato dal nonno, dal padre e dal fratello più vecchio. Venivo qui da bocia e qua son rimasto. Sono anni che dico che smetto ufficialmente ma forse siamo davvero arrivati alla fine. Mio nipote si è tagliato delle dita in entrambe le mani e l’altro aiutante (il figlio del mio primo maestro) ha due protesi alle gambe. Difficile continuare così”.

La pietra arriva dai Berici (Zovencedo e Grancona) e a Longare viene tagliata a misura. Quando arriva da Trevelin si inizia la lavorazione secondo l’ordine. Molti disegni sono originali. Si lavora molto sulle finiture, a volte con martello pneumatico e altre con martello manuale di legno. “È cambiato tutto, una volta ci mettevamo fuori a segare i pezzi a mano così come in cava levavano i blocchi col picco. Un mese per ogni blocco. Ora in un mese cavano mezzo monte”. Questi lavori ti permettono di viaggiare nel tempo e non è difficile immaginare come potesse essere discutere di pietre e sculture 4 o 500 anni fa. “Il materiale è sempre quello con cui Palladio fece le ville. Ho clienti per un buon 80% all’estero e in maggioranza in case private. Lavoro anche su catalogo con grossisti un po’ in tutto il mondo”.

Nel giardino qui c’è un po’ di tutto. Pare di essere in una sorta di parnaso in salsa berica. La preferita di Ilario è una statua di una figura femminile dolcissima e di rara armonia. Mi dice che costa sui 4 mila e aggiunge “ma dopo dipende se el privato xe un nostran o no”. Ci sono statue di un biancore totale ed altre annerite dal tempo e dagli elementi. “Al 90% la roba va via invecchiata. Le statue le antico io così rimangono poi intatte. Altrimenti la pietra ciapa dove che la voe“. La pietra di Vicenza, mi spiega, col tempo viene sempre più dura, e quindi statue che hanno 30 o 40 anni non possono certo tornare bianche. “Sarebbe come andare con la carta vetrata sul ferro”, dice Ilario. Lo lasciamo lavorare, torneremo a trovarlo perché questo posto è storia ed è racconto umano di quel che siamo, di quel che abitiamo, di quel che chiamiamo bellezza. Lunga vita.

