Sì, devo proprio avere dei gravi problemi se mi diverto a fare un giretto di prima mattina, dopo una notte insonne, in un quartiere periferico di Vicenza dove c’è la mia edicola preferita. Franco, il giornalaio, è un genovese eternamente scazzato. Gironzolo per l’edicola e spulcio i giornali, ma parlo con lui di tutti i suoi problemi e in cambio gli confido qualcuno dei miei. Sua è l’eterna questione del magro guadagno e del troppo lavoro. L’edicola lo fa dannare, la gente legge sempre meno e il Comune rilascia troppe licenze. I cittadini sono aumentati ma non i divoratori di carta stampata. «Aumento si, ma di slavi e marocchini che non sanno leggere l’italiano – borbotta con il suo razzismo non detraibile dalle tasse – che cazzo vuoi che comprino?» E poi Franco è sempre avvolto di inserti, libri, riviste e altra roba che non sa più come catalogare. Con i resi che lo assillano e tutta la carta che lo trascina in un maelstrom di cellulosa come Gordon Pym col suo vascello fantasma. “I giornali sono delle bandiere di carta”, gli dico. E lui bestemmia in genovese contro i riccastri che vanno a caccia alle quattro e mezza del mattino mentre lui si rompe il culo. E poi mi guarda bonario e mi chiede se faccio ancora il giornalista. Vorrei mentire e dirgli che mi hanno buttato fuori perché mi ero messo a scrivere una rubrica dal titolo “La bestemmia della settimana”, ma abbasso gli occhi e dico “sì” con un devastante senso di colpa. Allora guardo una ragazza stampata sulla copertina di un inserto e gli chiedo se per caso ce l’ha anche in carne ed ossa, incellophanata pure lei in un angolo del baldacchino. Lui si mette a ridere e per un attimo dimentica il peso del suo lavoro. Nel frattempo l’edicola accoglie un via vai di acquirenti del giornale locale. Il popolo del sabato mattina. Qualcuno va a lavorare, altri vanno a trovare un parente al dead day hospital del San Bortolo. Alcuni si fermano a parlarle con Franco, vagano come me attorno all’edicola, come tafani. L’edicola sembra proprio un piccolo mercatino rionale, tempio di chiacchere con fannulloni che scaldano l’animo estroverso e fintamente bonario dell’edicolante. Si parla di donne e carovita, di governo e malumori. «350 euro di acqua», dice Franco. La sua bolletta più alta, con le sue donne che si lavano le parti intime almeno dieci volte al giorno e suo figlio che si fa docce chilometriche. Io sono solidale e gli dico che l’acqua è un business, non più un diritto. Poi mi perdo nei titoli dei giornali. Mi chiedo quale nuova mattanza ci sia stata la scorsa notte nel vicinato. Sfoglio il giornale locale e nutro il mio cinismo leggendo la cronaca nera. Mi immergo nell’interminabile melò del solito uomo che ha massacrato la solita famiglia. Mi tuffo nei saggi psico-sociologici sull’amore e sulla gelosia, pattino sui percorsi da brivido della cronaca nera, tinta di giallo, edulcorata di rosa, aspettandomi che il giornalista si firmi Mike Spillane. Penso a questi mostri moderni sempre più vicini alle famigliole, all’uomo, alla donna, ai ragazzini. Catalogo le attenuanti, messe nell’occhiello sotto al titolo da grand guinol, per non far sembrare il mostro troppo simile a noi, popolino anonimo. Qualche attenuante c’è sempre: droga, gioco, pazzia, origini gitane o straniere. Aspetto con impazienza che appaia in edicola, a sommergere con la violenza cieca le bestemmie di Franco, il serial killer della villetta a schiera dell’angolo; il camionista quarantenne geloso, abbandonato dalla ragazza, che stermina un comune intero con una bomba all’idrogeno portata dalla Russia; l’adolescente impazzito per aver mangiato troppo carne in scatola che versa mezzo litro di Lsd nell’acquedotto comunale. Ma poi mi accorgo che c’è solo la faccia sconsolata di Franco dietro al mare di carta e mi sento come una blatta esiliata dal gruppo, un soldatino di latta incastrato nel tombino di un mondo di cemento, un operaio piemontese in pensione che beve Vecchia Romagna nell’ultimo bar sport della terra, illudendosi di creare un’atmosfera. Penso che tra un po’ mi ritroverò anch’io nel retrobottega dell’edicola, incellophanato, rannicchiato, vestito con roba usata da veterocomunista, vicino a qualche ragazza incellophanata pure lei e allegata alle riviste, che mi sorride da dietro l’involucro di plastica, tutta nuda. Ed io, con la mia timida erezione avvolta dal cellophane a vederla andare via, comprata come allegato a un magazine sui richiami da caccia da un vecchio giovane col Suv appena lavato. Io, invece, finirò di sicuro tra i resi, al macero. E l’ultima voce che sentirò sarà quella di Franco. “Questo cazzo di resi”.
Le avventure di “Mutanda Verde”
Non pensate a me come a un supereroe in costume. Sono praticamente invulnerable, ho la forza di 10mila uomini, so