C’è un vecchio adagio, banale di par suo, che recita: “la cultura non ha colore politico”. Lo ripetono assessori, ministri, operatori culturali, attenti sempre a non correre il pericolo costituito dal mettere alla prova il proprio intellettualismo. La cultura, quindi, non sarebbe né di destra né di sinistra, sarebbe di tutti. Ma la domanda è: davvero è corretto interrogarsi su questo? La cultura intesa in senso antropologico è per forza politica, se invece la prendiamo in considerazione come summa del sapere allora è, altrettanto per forza, trasversale. Ma sappiamo bene, nel campo politico, come sia materia stiracchiata ad uso propagandistico, ed ecco che il caos è servito. Andiamo con ordine, o almeno proviamoci.
Iniziamo col chiederci che posto abbia la cultura nella politica. Nei programmi anche di un piccolo comune, nel 90% dei casi è faccenda turistico/museale o agenda di eventi, aggiornamento dell’antico panem et circenses. Di progettazione, visioni, crescita collettiva, poco o nulla. Chiaro, ci sono eccezioni anche clamorose ma il trend è questo. D’altro canto l’interrogativo più sensato forse è un altro, ovvero se sia giusto che la cultura abbia un posto nella politica. Se non sia meglio, magari, che se ne tenga fuori. La politica teme la cultura in quanto intelletto, teme gli intellettuali, perché un tempo erano proprio loro a far politica e oggi se ne sono allontanati e, in sostanza, non portano voti.
Quella che troviamo oggi è una politica deculturizzata: la sua manifestazione evidente sta nel populismo con la sua ignoranza ostentata, i continui strafalcioni dei suoi esponenti, la polemica antiscientifica e antiaccademica, l’orgoglio plebeo, il razzismo rivendicato. Tutto a rafforzare, ovunque, l’immagine di un fenomeno politico privo di riferimenti culturali e senza nessuna ossatura ideologica.
La cultura è coltivare, è anelare alla conoscenza socratica, non è per forza prendere parte, essere partigiani. In questo non ha colore, ma in questo c’è anche l’alibi di chi più o meno consapevolmente l’ha relegata a mero intrattenimento, spogliandola dai contenuti d’impegno e di crescita sociale. Il punto è che nessuna comunità cresce senza una crescita culturale. Nessuna economia, nessun paese e nessun movimento politico. Senza cultura si cade, appunto, nella bagarre demagogica dei nostri tempi. Quindi il colore? Qual è? La conoscenza è argomento troppo alto per mischiarla con la bassezza disarmante delle dinamiche dei partiti, perciò il colore non sarà mai rosso, nero o bianco, e nient’altro. La cultura sta in alto.
Quel che serve non è una cultura che diventi politica ma l’esistenza di una politica per la cultura. Una politica cioè che si ponga come obiettivo quello di portare il più possibile la conoscenza al popolo.
Ma basta questo? Così facendo non si risolvono di certo tutti i problemi dell’umanità. Ad esempio: può un uomo di cultura essere nazista? Qui entra in campo il grande distinguo tra nozionismo, intelligenza, conoscenza e umanità. Non sempre queste cose vanno insieme. Un pazzo omicida può essere coltissimo, così come un sant’uomo dal cuore immenso e devoto al prossimo può essere analfabeta.
Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un fenomeno anti-culturale in netta e preoccupante crescita, la cosiddetta cancel culture. Nasce, quasi per paradosso, nella terra che ha fatto del pluralismo la propria bandiera e viene sostenuta, secondo paradosso, dai progressisti che, così facendo, si illudono di edulcorare il male al punto da rimuoverlo. Un “male” però ideologico o addirittura artistico. Cerchiamo di spiegarlo con un esempio.
Immaginate un attimo: avete un figlio e per lui sperate il meglio, e tra il meglio c’è anche la conoscenza, la più ampia e trasversale e libera. Bene, fin qui impossibile dissentire. Ora, c’è un professore molto importante, riconosciuto ovunque, esempio di moralità, e vostro figlio finisce nella sua classe. Qual privilegio, pensereste, e fin qui ancor più impossibile dissentire. Durante l’anno accademico però vostro figlio si rende conto che alcuni argomenti sono trattati con superficialità, quando addirittura non trattati affatto. Che succede? Succede che l’esimio è uomo tutto d’un pezzo, di morale ferrea e antica e non si immagina nemmeno per scherzo di insegnare cattivi maestri che han poi portato al buio della storia. Siano i Marx, i Mussolini o finanche (ego deprecarentur) i San Paolo o Sant’Agostino. E’ ancora impossibile dissentire? O forse l’educazione e la conoscenza necessitano di larghissime vedute ed è semmai il proprio senso critico che poi, un giorno, formerà le scelte ideologiche individuali? A questo punto siamo quasi certi che quel professore lo vedreste di sbieco se non proprio di malocchio. E ci pare impossibile dissentire.
Il fatto è che il nodo gordiano si chiama idea e non ideologia. E l’arte è arte in sé, sia che racconti di tragedie sia che ne dipinga le lodi. Gettereste Leni Riefenstahl perché glorificò Hitler facendo il suo mestiere (la regista) al massimo? Abiurereste Eisenstein perché regista della rivoluzione russa che poi portò allo stalinismo e alla morte di venti milioni di persone? E a Cèline, e a Pirandello, e a Neil Young che vota Reagan, cosa gli fate? Ezra Pound? Wagner? Nietzsche? Richard Strauss? La lista potrebbe allungarsi in eterno fino a far abbattere il Colosseo visto che (orrore) vi si torturava la gente!
Si dovrebbe imparare a pensare fuori da sé. Dopo l’undici settembre, Karl Heinz Stockhausen disse che era andato in onda lo spettacolo più emozionante dell’era moderna. Fu chiaramente ricoperto di improperi ma aveva più di una ragione nell’essersi così espresso. Tutto è spettacolo, quindi tutto è teatro e tutto è pop. Quelle scene non sono (anche) simbolicamente e socialmente talmente colme di significati da diventare opera d’arte? C’è poi Ricky Fitts, il ragazzo disturbato di “American Beauty”, che filma un barbone che muore di freddo perché lo trova di una “sconfinata bellezza”. E’ il senso del bello e del tragico, della sublimazione delle emozioni. Il dolore stesso è cultura, così come la morte, o la negazione.
La cultura ha quindi un colore: è quello del sapere vasto, della condivisione, della crescita e dello sviluppo di tutti attraverso un benessere non solo economico. Torniamo a dare colore alla cultura e torniamo a chiederlo alla politica e a premiare chi lo fa. Il populismo di certo è l’anti-cultura, è la prigione a vita del libero pensiero. Il suo colore è buio come la più profonda delle notti da cui tutti dobbiamo uscire.
Una cosa pare certa: un’umanità che ascolta Beethoven, legge Dostoevskij e guarda i film di Fellini è un’umanità in teoria migliore, un’umanità che, in teoria, non fa la guerra. In teoria. Intanto aspettiamo un nuovo umanesimo, che tarda ad arrivare.